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lisandro, il gioco è la cosa più seria che esista. mai visto bambini giocare?
@ nicola: scusami, io credevo scherzasse. mi sembrava troppo bello…
@ giuliana: grazie per l’invito, ma non posso accettarlo. sono solo un povero, piccolo troll. nella vita reale non esisto.
Non entro nel merito della discussione che pure seguo con attenzione per aggiungere ai tre esempi di Lisandro la serie di Botero sulle torture ad Abu Ghraib, “Abuse” di Guy Colwell, “Not Our Children, Not Their Children” e “A People Under Command: USA Today ” di Mark Vallen.
Il fatto che alcuni artisti contemporanei si trovino così spesso a poter “trarre ispirazione” da fatti e contesti così disumani è un triste segno dei nostri tempi.
Daniele Melillo
Cito solo tre esempi (Guernica, Dadaismo, Bauhaus) in risposta alla e-mail di
Nicola Sguera dove si parla di “artisti e intellettuali in molti casi complici
o silenti di infinita barbarie”.
L’unico caso, artisticamente parlando, che Nicola Sguera poteva utilizzare per
la sua tesi è il Futurismo.
Alessandro Caporaso
P.S. l’immaginazione non ha rigore.
Con la modestia che il tempo esige ma anche la violenza (anch’essa
necessaria), mi chiedo e vi chiedo se non è il tempo di liberarci di
tanti “mostri sacri” del secolo scorso, secolo di infinita barbarie, in
cui artisti e intellettuali sono stati in molti casi complici o silenti,
sia chi ha declinato il nulla dell’arte sia chi ha trasformato pennelli
e penne in moschetti e bombe. Sia chiaro: bisogna esercitare
discernimento. C’è molto da salvare ma anche molto da buttar via in nome
dell’umano, troppo spesso sfigurato.
Nicola Sguera
Credo che stiate sostenendo tutti la stessa cosa.
L’ironia è spesso emanazione proprio delle persone più serie.
Persino Mr. Bean pare nella vita sia una persona serissima.
E quando in arte si parla di gioco ed ironia non ci si riferisce a forme più o meno vuote di cazzeggio.
Gli ironici ready-made dovevano sottostare a regole abbastanza rigorose (prima di tutto al rigore dell’immaginazione;
Arturo Schwarz elenca ben 4 regole di Duchamp per evitare derive grossolane alla sua creatura).
Il gioco surrealista aveva alte funzioni e soprattutto un senso tutt’altro che giocoso nel senso comune.
Filosoficamente, il gioco surrealista rappresenta il “trionfo del principio di piacere sul principio di realtà”,
uno schiaffo all’utilitarismo gretto che privilegia al senso il fine, la forma d’insubordinazione prima e per eccellenza.
Chi gioca non sarà mai schiavo,
purché lo faccia… sul serio.
stavolta mi firmo
Alessandro Paolo Lombardo
Il talento (come del resto l’intuizione) è un punto di partenza ,
certo prima di tutto bisogna averlo, ma poi è necessario coltivarlo
lavorando tanto, le cose da imparare sono praticamente infinite, e la
tecnica è il mezzo che consente al talento di esprimersi. Quanto alla
serietà , io credo che , anche nelle sue rappresentazioni grottesche
( vedi Arancia Meccanica) l’arte sia la cosa più seria del mondo, in
quanto rivelatrice di UNA verità ( non DELLA verità naturalmente).
Dunque mi sento di appoggiare la tesi di Nicola, anche perché,
soprattutto in campo pittorico-contemporaneo, si tende a considerare
arte qualunque cosa, anche una linea su una superficie vuota,
scimmiottando Kandinsky, e asserendo che in realtà c’è un misterioso
significato che solo le menti più raffinate possono cogliere…
Luigi Di Donato
Innanzi tutto riporto qui una definizione di opera d’arte, poi, utilizzando ancora il ready-made di Duchamp (la Gioconda coi baffi) cercherò di farvi capire che l’artista non voleva negare l’arte di Leonardo, ma onorarla, mettendo in ridicolo gli estimatori superficiali ed ignoranti attaccati alle apparenze ed alle convinzioni.
definizione di opera d’arte ripresa da: Sciolla, studiare l’arte, Utet 2006
“La denominazione opera d’arte, entrata nell’uso corrente verso la fine dell’Ottocento e mantenuta normalmente sino ad oggi, intende designare un manufatto contrassegnato da specifiche caratteristiche: il significato del linguaggio, il valore estetico, il carattere individuale e spirituale, oltrechè materiale”.
L.H.O.O.Q. un ready-made rettificato realizzato nel 1919. E’ sostanzialmente una riproduzione della Monna Lisa di Leonardo alla quale l’artista ha aggiunto baffi e pizzetto, analogamente a quanto ciascuno di noi da bambino, giocando, ha fatto almeno una volta, scarabocchiando qualche libro scolastico.La provocazione, però, in questo caso, è doppia, perchè dissacra uno dei miti artistici più sacri della storia. Le lettere che appaiono in basso all’opera e che costituiscono il titolo, L.H.O.O.Q., appunto, se sillabate secondo la pronuncia francese danno origine ad una frase volgare (Elle a chaud au cul) letteralmente “Ella ha caldo al culo”.
Poichè tutti dicono che la Monna Lisa è bella.allora lo diciamo anche noi, magari anche senza esserne convinti, solo per conformarci al gusto (o cattivo gusto) dei più.
L’arte quindi è un gioco e prenderla sul serio significherebbe non estraniarsi dalla realtà.
Questo è quello che ci insegna il maestro massiomo, Marcel Duchamp.
Alessandro Caporaso
«l’arte, per definizione, non può che essere qualcosa di serio, comunque
si esprima, in quanto manifestazione di un sentire».
E’ proprio questa concezione dell’arte che volevo criticare, con tutte
quelle che per me sono “derive”. L’arte non è manifestazione di un
sentire, o meglio: è una forma assolutamente particolare di tale
manifestazione, che richiede un durissimo lavoro, come sa chiunque abbia
frequentato con occhio vigile una qualunque disciplina considerata
artistica. Mi rendo conto che stiamo affrontando questioni su cui, da
secoli, ci si accapiglia senza risultato, e non vorrei passare per un
difensore della “tecnica” e del “mestiere”. Ma, come diceva Leopardi
(per quanto riguarda l’ambito con il quale ho maggiore dimistichezza),
la poesia è un fiore che sboccia su un cumulo di erudizione.
Scrisse Hokusai: scrisse: «Dall’età di sei anni ho la mania di copiare
la forma delle cose, e dai cinquant’anni pubblico spesso disegni, tra
quel che ho raffigurato in questi settant’anni non c’è nulla degno di
considerazione. A settantatré ho un po’ intuito l’essenza della
struttura di animali ed uccelli, insetti e pesci, della vita di erbe e
piante e perciò a ottantasei progredirò oltre; a novanta ne avrò
approfondito ancor più il senso recondito e a cento anni avrò forse
veramente raggiunto la dimensione del divino e del meraviglioso. Quando
ne avrò centodieci, anche solo un punto o una linea saranno dotati di
vita propria». Mi sembra uno straordinario richiamo a ciò che io intendo
per serietà. Senza polemica con nessuno, ma per la comune difesa del
“senso” contro tutto ciò che lo minaccia: l’improvvisazione, ad esempio,
le trovate “geniali” dei pubblicitari ecc. Siamo tutti chiamati alla
dura fatica nelle discipline che avremo scelto per dire il nostro essere
nel mondo e con gli altri.
Nicola Sguera
La questione sollevata da Nicola Sguera sulla serietà dell’arte e
della sua interpretazione mi induce a questa riflessione. Non credo che
la mancanza di serietà sia associabile a ciò che comunemente si
definisce “arte”, intendo dire che l’arte, per definizione, non può che
essere qualcosa di serio, comunque si esprima, in quanto
manifestazione di un sentire.
E anche l’interprete non può che essere
serio nel suo approccio, diversamente non sta interpretando e non è
interprete. Cosa diversa è il risultato dell’interpretazione, da cui
può scaturire l’intera gamma di stati emozionali pensabili ed
immaginabili.
La mia personale definizione di arte è: tutto ciò che è
in grado di generare emozioni. Le didascalie di Alessio, forse anche
dissacranti, erano frutto di emozioni e hanno suscitato emozioni,
creando nuova arte….
Maria Rosaria Leccese
vorrei rispondere a Nicola Sguera, quando afferma che “l’arte e la sua interpretazione (l’arte e le sue pratiche) debbono tornare ad
essere cose estremamente serie”, dicendogli che grazie proprio al gioco ed al divertimento il dadaismo ha potuto mettere i baffi alla Gioconda.
Alessandro Caporaso
Mi associo ad Antonio, con un modestissimo contributo sulla vicenda.
C’e un festival d’arte di Bari, che non ho mai visto, ma che ha un titolo molto significativo sul valore e sul senso dell’arte: “Una scintilla che accende l’universo”. Ho sempre pensato che l’arte, quando è tale, sia in grado di accendere la scintilla che permette la visione di ciò che non è visibile. Si genera così un momento di incanto, proprio della funzione profetica e sciamanica dell’arte, in cui ogni parola diventa superflua, se non addirittura un ostacolo all’innesco della scintilla stessa, e che accende in ognuno fuochi diversi.
Credo che quando si compiono acrobazie linguistiche per spiegare o interpretare l’arte, molto semplicemente quella scintilla non è scattata. O perché l’arte non era tale, o perché non si era nelle condizioni di percepirla.
Con affetto a tutti, soprattutto ad Alessio.
Pasquale Palmieri
Credo che l’arte visiva abbia un proprio linguaggio e che qualsiasi interpretazione di tipo didascalico si faccia di essa corra il rischio di essere fuorviante.Mi abbandonerei al silenzio per cercare di vedere meglio.
Antonio Esposito
sarei lieta di ricevere in galleria in contemporaneità…sguera…masone…raffaello…leone e la cara tullia!il molteplice in arte è quasi L’ idem…e i corpi posso assicurare dinanzi alle pettinesse di FRANCESCA…VIBRANO!
la gallerista.
Un’interpretazione in due mosse di “Pettinesse”.
La mia interpretazione non è collegabile al dadaismo perché questo non riconosceva l’uso della razionalità nell’opera d’arte.
Nel mio caso, ho fatto un uso estremo della razionalità per produrre nuove visioni grazie a un’interpretazione dinamica delle opere di Francesca Capasso.
A un primo sguardo, senza la mediazione delle mie foto, le tre tele esposte rappresentano la donna in rapporto alle pettinesse: in una tela, una sola grande pettinessa metteva ordine nella chioma di una donna, in un’altra, troppe pettinesse ottenevano uno scarso risultato, in un’altra ancora, le numerose pettinesse erano tutte a terra incapaci di mettere ordine alla chioma della donna.
Le pettinesse erano l’unico elemento tridimensionale della mostra (in una teca, ne era esposta una in argento), come a rappresentare il raziocinio tridimensionale del maschio.
Nelle mie foto e nelle connesse didascalie, basandomi su immagini pittoriche femminili, prodotte da una donna, ho voluto ipotizzare una dimensione maschile tridimensionale (che agisce fuori dal dipinto) che si distingue da una dimensione bidimensionale femminile (il dipinto).
Nella lotta, mai pacificata, tra maschile e femminile, inserisco un “vedere” (il raziocinio tridimensionale) dell’uomo e un “sentire” (il raziocinio mancante di tridimensionalità) della donna. L’ombra delle donne visitatrici della galleria, che si poggia sulle tele, conferma un linguaggio femminile mancante di tridimensionalità e, quindi, di connotazioni spazio/temporali.
Tutto questo mette in rilievo l’attrazione/repulsione che una donna prova per l’uomo razionale. Quanto più la donna è complessa, tanto più avrà bisogno di un uomo di possente raziocinio tridimensionale, quindi capace di attitudini spazio/temporali (visione e prospettiva): ne consegue un innalzamento dello scontro maschile/femminile.
Alla luce di questo, tramite le mie foto e le relative didascalie, nelle tre tele, possiamo interpretare tre donne in rapporto all’uomo.
Un solo forte uomo (un’unica grande pettinessa) rende la donna, apparentemente soddisfatta, mancante di una propria identità e di una direzione personale.
Più uomini (numerose, ma piccole, pettinesse) non sono capaci di mettere ordine alla donna che, forse intontita, disperdendosi in mille rivoli, è intrappolata in una continua fuga che non può esprimere una specifica identità e una concreta direzione.
La mancanza di uomini (nessuna pettinessa nei capelli, ma tutte a terra infrante) rappresenta la donna che, nell’ansia estrema di difendere un’identità inviolata dall’uomo, rinuncia a quel confronto con l’estraneo che è necessario ad esprimere una qualsiasi identità: quella donna, ormai senza obiettivo, senza direzione, sente l’uomo come il colpevole dei suoi sogni infranti.
Nei tre casi, previsti dall’artista, insomma, il rapporto tra i due sessi impedisce l’identità della donna: a questo punto, diventa necessario l’invenzione di un terzo genere, inteso come un’inedita percezione del rapporto uomo/donna, in cui l’uomo per prendere dall’immensità della donna, deve dare in cambio un ordine spazio/temporale al sentire di lei.
Nonostante l’eventuale dolore della donna, l’uomo, come un ostetrico determinato che non si fa impietosire dal singolo momento, con fare maieutico, fa nascere dalla donna figli interiori che rappresentano quell’incontro, tra sentire femminile e vedere maschile, che trasforma entrambi e che contribuisce all’evoluzione culturale del mondo.
Questa visione ipotizza uomini e donne che non si incontrano esclusivamente per trasformare la biologia, producendo figli biologici necessari all’evoluzione della specie, ma anche, ribellandosi alla biologia, per realizzare quella trasformazione, interiore e reciproca, necessaria alla collettività e, quindi, all’evoluzione della civiltà.
La donna, quindi, invece che all’uomo, dovrebbe ribellarsi alla biologia e al sistema sociale che la portano verso gli uomini inidonei al suo sentire.
Nella mia interpretazione, sono presenti numerosi aspetti della “mia visione del mondo”: il paradigma di Art’Empori che rinnega una separazione netta fra produttore dell’opera e fruitore; la didascalia della prima foto (Verso Amsterdam) che ha il titolo della poesia che inaugurò, nel gennaio 2009, il blog Antologia di Art’Empori; il pensiero della differenza femminile; una mia attitudine a capitalizzare il sentire della donna a cui mi rapporto; l’interpretazione dinamica dell’opera (la verità dinamica capace di concretizzare la verità statica); un’arte non distinta dal quotidiano (le anonime pareti della galleria che, in quanto “tele” che ospitano persone fisiche, assumono il titolo di “affreschi murali monocromatici”); un’evoluzione culturale come ribellione alla biologia.
Ho realizzato un’interpretazione capace di concretezza e zeppa di rimandi, dichiarati e non.
Altro che nihil. Altro che facebook.
Alessio Masone
dài, Nicola, per una volta che il tipo mostra un po’ di spirito…
Comunque, Alessio è veramente incredibile.
è vero, non vi rende giustizia per niente. presto verro’ a trovarti, giuliana. che belle opere.
La quarta dimensione
L’opera diventa un unicum, con il fruitore, quando vive nel tempo la propria esperienza con essa.
Le opere non si ammirano in modo passivo, ma si “sentono” in maniera personale quando entriamo fisicamente nella dimensione che si apre a noi.
La nostra personale interpretazione completa il senso dell’opera.
La partecipazione attiva dello spettatore è fondamentale per realizzare una lettura dinamica, perché percorre, nel tempo, più tappe di un approccio.
Attraverso la quarta dimensione, il tempo, si costruisce una percezione che coinvolge i nostri sensi.
Questa esperienza diretta è portatrice di sensazioni che sollecitano la mente e seducono l’anima.
I segni, i colori, i suoni, le forme, lo spazio in cui tutto accade e si trasforma, richiedono con prepotenza la nostra attenzione e la nostra interazione.
Le opere, che in questo modo, entrano in contatto con lo spettatore, sono sentite, e non semplicemente osservate, perché non basta passare e guardare, ma è necessario fermarsi e lasciarsi coinvolgere.
Ecco allora che in una sala della galleria Numen è possibile calpestare le pettinesse che la donna “disegnata”, in un malinconico candore, ha lanciato sul pavimento come segno di protesta o di rassegnazione.
Ci implora di raccoglierle o di distruggerle.
lI senso dell’opera, in questo caso, si completa con la lettura che noi vogliamo assegnarle, seguendo il nostro spirito di partecipazione.
Ognuno di noi offre un valore aggiunto ad una installazione che ha diversi significati e si carica di nuove visioni.
Questa maniera di concepire le installazioni è adottata per rompere il tradizionale approccio museale, riuscendo a creare un rapporto dinamico, attivo e creativo.
Le persone che si muovono negli spazi della galleria, e scelgono di non passare, ma fermarsi, contribuiscono ad arricchire l’opera di nuovi significati inaspettati perché non prevedibili.
Se Alessio ha dato una singolare interpretazione, sicuramente dissacrante, lo si deve al suo carattere irreverente che rompe le regole per guardare oltre le apparenze, quindi riesce a vedere e comprendere in una sola visione opera e spettatore.
Il disegno è quello che si vede, ma guardare oltre, vuol dire interrogarsi sul rapporto tra le opere allestite e le persone che le guardano o che le ignorano.
In quella serata inaugurale, gli spettatori si muovevano nello spazio, interagendo nel tempo, con i disegni puri, illuminati da folte ciocche di capelli e lucenti, preziose pettinesse.
Stefania Leone
So che potrei ferire qualcuno. Personalmente ritengo che queste derive “dadaiste” siano fuori tempo massimo, e profondamente contraddittorie con la “visione del mondo” di Alessio, così concreta… La deriva del senso va bloccata. Il nihil che trasuda da questa commistione di “cecità e visione”, per citare un critico che fu gran parte nell’affermazione del nichilismo (in campo letterario), deve essere arginata con una forte richiesta di “vera presenza”.
Tutto questo potrebbe essere detto in maniera molto più semplice: l’arte e la sua interpretazione (l’arte e le sue pratiche) debbono tornare ad essere cose estremamente serie.
Nicola Sguera
Cara Marianna,
hai ragione sul fatto che Alessio è spaesante con le sue didascalie. Ritengo però che il nostro amico incarni contestualmente i due aspetti che tu hai colto così bene. Dissacratore nelle immagini e artista che ingloba il tutto nei commenti.
Maria Rosaria (la donna romana di una delle didascalie)
Alessio sei spaesante. Leggendo le didascalie delle foto ho il dubbio se sei un dissacratore o l’artista che ingloba il tutto: artista, arte, mostra, spettatore?
Anche se odii facebook, lì ho linkato le tue foto. Voglio sentire un parere dei miei amici artisti salernitani.
marianna
alessio…sei unico!ma, pietà… elimina la foto con stefania leone/gallerista è orrenda!
“due affreschi murali simmetrici e monocromatici” = pareti intonacate? LOL, toglietegli quel cristalloideo manufatto panciuto dal lungo collo in diossido di silicio e pura rena di murano, ricolmo di uvaceo liquido color rubino (= bottiglione di vino rosso).
la tua è senza dubbio una singolare interpretazione
Stefania