Sapore d’infanzia. Racconto di Adriana Pedicini

(Dalla raccolta di racconti “I luoghi della memoria”, 2011, di Adriana Pedicini)

Sapore d’infanzia La vita può essere paragonata ad una mensa imbandita: piatti prelibati, delizie del palato, profumi esotici, dolcezze morbide e tremolanti come leggere costruzioni di carta velina; ma anche piatti amari, aspri, nauseabondi, pesanti, indigesti.

E le tappe della vita umana hanno un po’ tutti mescolati insieme questi sapori, più o meno raffinati nel piacere, melliflui nella gioia, aciduli nella sofferenza, aspri e amari nel dolore. Ma il sapore e il profumo robusto e sicuro del pane è riservato all’infanzia.

Questa poggiava tutta e cresceva intorno ad una pagnotta di pane scuro, con su tanta farina bruciacchiata che, allungando le dita di nascosto, lambivamo come zucchero vanigliato. Fette di pane asciutto, fette impregnate di vari sapori e altrettanti colori, morbide, tostate, annegate in ciotole di latte spumeggiante ancora caldo di tepore animale, frizzanti per una spruzzata di vino o talvolta di aceto, ricamate a ghirigori di filigrana di biondo olio, intrise degli umori aromatici delle nostre erbe, levigate con sfere succose di pomodori maturi.

Puntuale e generoso era sempre lì il pane, nella credenza, unico alimento a portata di bocca. Tutto il resto era di solito tenuto al buio umido della cantina o al fresco asciutto del magazzino. La maga del sacro rito era la nonna Andreana. Quanta bontà e quanta sicurezza in lei! Non sapeva leggere né scrivere, ma aveva saputo allevare i numerosi figli con sicura dolcezza. A tutti aveva fatto dono della sua affabilità, della sua grazia; a tutti aveva trasmesso un senso profondo della religione, un senso sacro degli affetti domestici, un rispetto istintivo per gli uomini e le cose.

Nell’aspetto era una matrona, una vera matrona. Fianchi poderosi ondeggianti tra le pieghe di una gonna di flanella blu, lunga fino alle caviglie, adorna all’orlo con due o più falpalà; su di essa un grembiule di seta con lunga frangia e piccole tasche colorate. Il petto robusto era costretto in un busto di panno rosso o verde, gallonato e chiuso dinanzi con lacci colorati di seta o cotone. D’ estate le maniche dello stesso corpetto venivano staccate e splendeva nel suo nitore una bianca camicia ricamata, appena rimboccata ai polsi. Indossava calze bianche e turchine e ai piedi pianelle con mascherina di pelle lucida o scarpine accollate e allacciate, con la punta allungata. Ogni mattina rifaceva la sua chioma candida in piccolissime trecce annodate con un nastrino di velluto rosso e disposte in cerchio attorno alla nuca. Uno spillone grosso d’argento attraversava l’acconciatura . Un fazzolettone a fiorame, dai colori vivaci su fondo nero o bianco, fungeva da copricapo, scendendo fino alle spalle e formando angolo in mezzo alla schiena, mentre ugualmente all’insù erano ripiegate le nocche laterali.

Agli orecchi pendevano orecchini di perline a mazzetti, al collo una collana di grossi grani di corallo con pendaglio centrale, alle dita un anello d’oro battuto, foggiato a crocifisso. Non mancava il fermaglio, una grossa spilla che d’inverno serviva anche a tenere uniti i lembi dell’ampio scialle di lana bouclè. Le sue mani erano morbide e carezzevoli come piume, la sua parola sempre dolce e suadente, la sua anima colma sempre di conforto per la famiglia. Con le mani appunto riusciva in brevissimo tempo a dare forma a una bianca palude di pasta lievitata che da tempo riposava nella madia, suddividendola in cestelli di vimini. Questi, riempiti a metà, pian piano si andavano colmando fino all’ orlo, continuando la pasta a lievitare sotto un telo di canapa, teso a ricoprire i panieri.

La nonna ne era gelosa in questi momenti e cercava in tutti i modi di liberarsi di noi ragazzini che quasi monelli dispettosi tentavamo tutte le strade per starle tra i piedi, fingendoci buoni e ubbidienti. Poi furtivamente affondavamo le dita in queste morbide forme, osservando stupiti come i buchi impressi dalle dita subito scomparissero al rigonfiarsi spontaneo della pasta. Una volta però uno di noi si accorse per caso che sulla morbida crosta delle forme di pane adagiate nei cesti dopo la cottura, la superficie era raggrinzita lungo i bracci di una croce tracciata nel centro. Al richiamo tutti noi rimanemmo stupiti e attenti osservammo se la stessa cosa si evidenziasse anche sulle altre forme. Fu proprio così. Attingemmo allora, senza che nessuno ci facesse lunghi discorsi, il valore per così dire sacro di quel rito che aveva avuto il suo inizio fin dalle tre del mattino. Infatti non eravamo mai riusciti a capire bene perché fosse necessario ritrovarsi in due o tre, anche quattro di loro a compiere a quella ora ancora buia dell’incipiente mattino un lavoro che secondo noi poteva essere eseguito anche di giorno.

Come sempre avviene, non convincendoci le spiegazioni logiche, fantasticavamo sul mistero di questi convegni spiegandoceli come una sorta di riti magici atti a propiziarsi, complice la notte, la buona riuscita dell’operazione. Credevamo che la magia avesse il compito di favorire e soddisfare le esigenze più semplici della vita umana, mentre in caso di estremo bisogno o di grandi favori bisognava piamente rivolgersi ai Santi. Se pensavamo ciò era perché ad ogni nostra richiesta di assistere alla fase preliminare di quel lavoro, opponevano un secco rifiuto, apostrofandoci: “Dormite, voi !”. Sicché l’unica cosa che ci era permessa era quella di trasportare i panieri in fila, l’un dopo l’altro, lentamente fino al forno al momento della cottura.

Il forno a cupola occupava un angolo dell’ampia cucina, alla destra del focolare. Basso di cielo, era sufficientemente ampio per poter contenere fino a quindici o venti pagnotte in una volta. Uno sportello di ferro chiudeva l’apertura centrale, e uno più piccolo nascondeva la porticina laterale attraverso cui si spiava l’andamento della cottura. Il forno veniva dapprima surriscaldato con legna ben secca che ardendo scoppiettava nel suo ventre lanciando lunghe lingue di fuoco all’esterno, su per la muratura annerita.

Poi ne veniva ben bene spazzato il pavimento con fronde di rami che fossero fresche, altrimenti la brace ardente, residuo del fuoco di prima, le avrebbe bruciate. Compiuti i preparativi, la nonna dalle guance ormai completamente rosse e cocenti, ci chiamava invitandoci a procedere piano. Come sacerdotesse allora sfilavamo compunte fino a deporre le nostre primizie come offerte votive sull’altare del forno. E ancora con senso religioso si attendeva la magica trasformazione delle potenziali pagnotte in pane odoroso e croccante.

Saltavamo, cantavamo, danzavamo giocando come in misterici riti, e pregustavamo il piacere di assaporare delle ciambelle della stessa pasta del pane che ci venivano offerte poco prima che le forme venissero tirate fuori dal forno. Si intendeva in tal modo ringraziare il buon Dio della felice riuscita di tutta l’opera e noi eravamo il tramite che concretamente si avvantaggiava dell’offerta votiva. Finalmente apparivano una alla volta, regalmente, le forme d’oro brunito, croccanti, odorose.

Ancora cocenti erano deposte in larghe ceste di vimini e ricoperte con panni di tela grezza tessuta in variopinte trame; così venivano trasportate nella stanza che fungeva da dispensa, le cui pareti erano totalmente impregnate del profumo di cibi vari. Questo avveniva perché esse, le pagnotte, non fossero toccate o maneggiate. Soprattutto dovevano essere desiderate in attesa che il pranzo collettivo ne richiamasse la legittima presenza sulla tavola profumata di lino fresco di bucato, sotto lo sguardo severo del nonno e la magnitudine della nonna, mentre un fiasco di vetro verde scuro adagiato in un cestello di vimini effondeva nell’aria un corposo profumo che a noi piccoli sembrava di cioccolato.

Qualche volta ne assaggiavamo un sorso con sorrisi maliziosi tra il nonno e noi e le occhiatacce della nonna. A noi nel frattempo non rimaneva che sbocconcellare pezzi di candida ricotta morbidamente adagiata tra le sponde di morbida focaccia, unico possibile trofeo di un rito religioso. Mai più nella vita da adulti abbiamo sentito profumi così buoni capaci di dare sicurezza ed allegria. Il merito forse non è del vino, né del pane, ma degli affetti che sono volati via e permangono nel cuore solo come ricordo nostalgico.

Una risposta a Sapore d’infanzia. Racconto di Adriana Pedicini

  1. nossideadriana Pedicini 2 dicembre 2011 a 16:24

    grazie Alessio!

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