Cedesi attività

Intevista a Mariano Fierro realizzata da Stefania Iannella

- Prima di spiegarci i motivi di questa decisione, può iniziare col raccontare la storia di FotoCine Fierro?

Mio padre ha iniziato a fare il fotografo a 18 anni, quando tornò dalla guerra. Iniziò presso Penza, a quei tempi uno dei fotografi più importanti di Benevento (eccoli insieme nella foto sopra l’ingranditore). Nel 1950 aprì un negozio a San Giorgio del Sannio e nel ’58 (l’anno della mia nascita) si spostò in via Traiano. Era uno dei primi laboratori di fotografia a colori dell’Italia meridionale. Essendo a conduzione familiare, io e mio fratello siamo praticamente cresciuti immersi nella fotografia.
Nel 1981 mio padre si ammalò e morì di tumore ai polmoni, sicuramente dovuto alle sostanze chimiche (le soluzioni si miscelavano in casa a partire dai materiali grezzi) ed io dovetti quindi assumermi la gestione del negozio.
L’attività andava bene. Per quasi quindici anni ha lavorato presso il mio studio anche il fotografo Mario Taddeo.
A un certo punto c’è stata la svolta epocale: dall’analogico al digitale.
Mentre prima, quando aprivi i cassetti ci trovavi foto sparse e album fotografici, ora non c’è più niente di tutto questo. La tecnologia e il consumismo hanno portato a scattare di più e a rendere di meno.

- Da quanto tempo ha pensato di chiudere? E quando lo farà?
Ci penso da un paio d’anni. Prima si riusciva a restare a galla, ma ormai le spese superano i profitti e per me non ha più senso continuare a rimetterci.
Chiuderò fra qualche settimana.

- I pochi clienti rimasti sono per lo più dei veterani o ci sono anche giovani?
Sono soltanto i nostalgici, quelli che sono ancora vivi dei miei clienti di una volta. I vecchi padri di famiglia sono diventati nonni. Molti di questi non sono più in vita, altri si sono adeguati alla tecnologia.
Per lo più, i giovani vengono a chiedermi soltanto spiegazioni e aiuti tecnici per macchine fotografiche spesso acquistate su internet.

- Qualche parola sulla pellicola tradizionale…
Un tempo la media per famiglia era di una pellicola al mese. Dopo le feste estive molti ci portavano anche 3 o 4 pellicole. Poi c’erano le festività: Natale, San Valentino, Pasqua, Pasquetta, compleanni e via dicendo…
Per ogni rullino si attivava un circuito economico che coinvolgeva produttori di pellicole, batterie, carta, prodotti chimici, ecc. Tutto questo ora è finito. Ora la gente scatta, ma non stampa più. Di conseguenza è stato eliminato tutto l’aspetto economico retrostante.

- Quindi ormai la pellicola è proprio definitivamente in via d’estinzione?
Sì, è finito proprio il settore.
Si era arrivati al massimo che si potesse avere nel campo chimico. Il trapasso non è stato graduale. Perfino la Kodak, il cavallo di battaglia della fotografia, è fallita.
Ci sono soltanto pochi appassionati che ancora preferiscono la pellicola. I giovani d’oggi non hanno proprio la mentalità della fotografia cartacea. Zero. Parecchi non sanno nemmeno che prima le foto si portavano a sviluppare.
In genere, se occasionalmente vogliono stamparle, o lo fanno direttamente con la loro stampante, o vanno alle macchinette automatiche (la cosiddetta “stampa a sublimazione”).
Comunque si vocifera che anche il nostro processo chimico, che permette di sviluppare foto di qualità superiore, stia per essere bandito a partire dal 31 dicembre di quest’anno, a causa dell’inquinamento ambientale – oltre ai danni alla salute (come dicevo prima mio padre, appunto, ci è morto). Secondo queste voci non si eseguiranno più bagni chimici se non in un primo tempo, con gli ultimi prodotti di rimanenza.

- I cari vecchi album fotografici cartacei sono ormai destinati sempre più e soltanto alle grandi cerimonie? O neanche più a quelle?
Neanche più ai matrimoni. Anche gli album sono diventati digitali. Quello che prima era un album fotografico ora è tipografia.
Ora non si bada più alla qualità delle foto o a chi ha scattato la foto. Prima dipendeva dalla bravura del fotografo saper cogliere con poche foto l’essenza della cerimonia.
Oggi per un matrimonio si fanno più di 500 scatti. Poi si selezionano al computer; poi si devono montare; poi al laboratorio si fa una campionatura che si presenta ai novelli sposi, prima di procedere alla stampa. Il tutto richiede circa tre mesi e quindi, in alcuni casi, prima di consegnare l’album, i potenziali clienti hanno già divorziato.
In aggiunta a tutto questo, anche in questo caso il lavoro è notevolmente diminuito, prima di tutto perchè tutti si improvvisano fotografi; in secondo luogo sono diminuiti i matrimoni ed infine è diminuito il budget del matrimonio. Spesso, per risparmiare, si fanno scattare le foto direttamente dai loro amici.

- In questo tempo di crisi, vista la tendenza dominante di speculare sulla disperazione dei disoccupati (per dirne una, cito l’ultima trovata di far temporeggiare un anno gli aspiranti insegnanti con il TFA, “tirocino formativo attivo”, a pagamento per i partecipanti – lo specifico visto che per lettori di altre nazionalità sarebbe ovvio il contrario -, per la modica cifra di circa 3000 euro, “test di ammissione” incluso) non le è passato per la mente di proporre alle aspiranti modelle i book fotografici a 300 / 500 euro, come fanno in altre città?
A Benevento non credo proprio che possa funzionare.

- Nonostante tutto, noto che ci sono ancora degli appassionati e dei collezionisti disposti a spendere cifre esorbitanti per uno scatto. Si è da poco conclusa l’asta di fotografia Bloomsbury durante la quale sono state aggiudicate foto, come ad esempio questa di Irving Penn (1917-2009), a 8.125 € o quest’altra di Berenice Abbott (1898-1991) a 5.750 €. Che ne pensa?
Io quella la considero semplicemente sete di possesso; una competizione a chi può avere ciò che un altro non ha. C’è anche chi compra macchine d’epoca soltanto per averle, non per usarle. Per me non ha valore. Non riusciremo mai a salvare questo settore.

- Che ne pensa della mostra di Arturo Ghergo (fotografie 1930-1959) che si terrà fino all’8 luglio al Palazzo delle Esposizioni di Roma? Questo tipo di mostre possono favorire l’approccio e l’interesse verso l’arte della fotografia?
Non ci spero tanto. In genere la gente è interessata più alle mostre di quadri che a quelle di fotografie. Questo secondo me dipende dal fatto che la mostra di quadri è vista come qualcosa più lontana dal quotidiano. La gente percepisce la pittura come qualcosa che non sa fare, mentre invece tutti credono di saper scattare le foto. Tuttavia essere un buon fotografo non è facile. Un buon fotografo, tramite il suo modo di fotografare, firma le sue foto come lo scrittore firma i suoi libri.

- Ha già qualche idea di cosa farà dopo la chiusura? In che campo cercherà lavoro?
Ancora non lo so, ma non certo nella fotografia. La crisi è incalzata sia nel mio settore che nell’economico e quindi la prima spesa che le famiglie scelgono di tagliare è il superfluo. E questo è visto come superfluo.
C’è da dire che non mi sento ripagato per quanto ho dato. Dopo una vita intera dedicata alla fotografia, ora mi ritrovo senza una professione. Non vedo spiragli perchè è finito proprio il settore.
Non posso neanche pensare di passare semplicemente al commercio degli apparecchi fotografici, perchè neanche quelli si vendono più, a causa delle vendite su internet e della concorrenza dei grandi centri commerciali che vendono a un prezzo più basso.

A 54 anni non sono né vecchio, né giovane e cercare un lavoro è perciò ancora più difficile. Oltretutto io faccio parte del vecchio sistema di vita, quello libero dai computer. Quando ero piccolo e ricevevo un giocattolo, per capire come era fatto lo smontavo. C’era proprio quella curiosità spontanea di scoprire e capire da soli gli ingranaggi e il funzionamento delle cose.
Oggi i bambini non li smontano, perchè sono elettronici. Per questo motivo il computer non rientra nel mio modo di vedere le cose.
Prima c’era un rapporto umano. Ai giorni d’oggi è raro vedere bambini o ragazzi giocare a pallone per strada. Ai nostri tempi il calcio era un modo per socializzare. Da ragazzo il mio il ruolo nel gruppo me lo dovevo conquistare. Se ero amico di tutti era grazie a delle qualità come la disponibilità, la generosità, la fiducia, il modo di fare, ecc.
È assurdo che invece oggi la gente sia capace di litigare, o di giocare con l’amore, virtualmente. Magari scrivono frasi d’amore online a una ragazza, facendola illudere, mentre contemporaneamente stanno abbracciati a un’altra donna. È qualcosa di stupidamente falso e distruttivo, che non fa parte dei rapporti umani.
È facilissimo scrivere chiacchere senza guardarsi in faccia. Le parole le conosciamo tutti, ma hanno davvero valore solo se sono legate a un’espressione del viso, a un comportamento, a una coerenza con la propria personalità, insomma – contrariamente all’illusione fittizia e al mascheramento di internet – a una vera presenza. Solo così si può creare un vero rapporto.
Questa mancanza di raffrontarsi è un handicap dei ragazzi di oggi. Ormai noto una freddezza in tutti i tipi di rapporti. Ad esempio, quando i ragazzi entrano a chiedere informazioni, li vedo impauriti, impacciati… Hanno perso il contatto con la realtà, il relazionarsi con gli altri. E il prossimo giro di boa delle generazioni future sarà ancora peggiore.

2 Risponde a Cedesi attività

  1. Pasquale 17 giugno 2012 a 6:48

    Frequento il negozio di Mariano da quando c’era suo padre, e già il trasferimento da via Arco Traiano mi addolorò moltissimo, perché quel luogo, in cui si incontravano e confrontavano tutti i fotografi della città, incarnava in se i valori migliori di questa splendida passione.
    Il trasferimento al corso Vittorio Emanuele, e la speranza che l’agonia di una certa Fotografia, che procedeva oramai a velocità inesorabile, andasse curata con la velocità delle auto che sfrecciavano davanti al nuovo negozio, sono lo specchio di un cambiamento pilotato da fabbricanti di illusioni mercenarie.
    Grazie Mariano, e grazie alla tua famiglia…
    Pasquale Palmieri

    Rispondi
  2. alessio masone 16 giugno 2012 a 18:50

    Complimenti a Stefania Iannella che con questa intervista ha saputo disegnarci un ponte tra crisi economica ed egemonia dell’industria virtuale che porta via risorse economiche ed identitarie dai territori, dai quartieri, dalle famiglie.

    Come aveva preannunciato Stefania, questa intervista è collegabile al tema che abbiamo affrontato ieri sera, al Caff’Emporio, durante il Caffè filosofico su “Crisi economica e crisi sociale: è la fine della civiltà occidentale?”.

    Quello che sta accadendo al caro Mariano Fierro, è solo un segnale premonitore di quello che toccherà a tutti noi (prima ai piccoli negozianti, poi, alle famiglie), se non invertiamo il modello di sviluppo e, prima di esso, il modello culturale: per questo nasce Art’Empori, un movimento capace di portare, nella fruizione dell’arte e di tutti i processi culturali, le istanze del cambiamento dal basso, della cittadinanza non delegata, dell’economia solidale (che è un’economia non delegata alle grandi aziende sovraterritoriali e ai mass media).

    Nei prossimi giorni, verrà assegnato il Premio Strega, iniziativa di cui il mondo culturale beneventano è tanto entusiasta: ebbene, l’assegnazione di premi avalla, in tutti gli altri aspetti della vita, l’attitudine a un’esclusione dell’altro e, quindi, a un’economia che non tenga conto della coesione con il vicino di casa o di territorio. La fruizione dell’arte, oggi, in quanto gesto culturale, dovrebbe consistere anche in una capacità di incidere sulla giustizia sociale, sull’inclusione, sulla redistribuzione del reddito, sulla tutela delle risorse identitarie e ambientali.

    Alessio Masone

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