“Niente si oppone alla notte” secondo Tullia Bartolini

“Niente si oppone alla notte” di Delphine de Vigan, Mondadori, 2012,
nella recensione di Tullia Bartolini

I romanzi autobiografici possono insospettire. E poi, perchè leggerli? Quale morbosità ci attira verso di loro? Cosa vorremmo sapere dei loro autori, specie se li amiamo, o li abbiamo molto amati? Così, con questo sospetto, mi sono avvicinata a Niente si oppone alla notte, l’ultima pubblicazione, in Italia, per i tipi della Mondadori, di Delphine de Vigan.

Io amo questa autrice, certo. Ho letto di lei Gli effetti secondari dei sogni e il bellissimo Le ore sotterranee. La sua scrittura mi ha sempre avvolta, ipnotizzata, nutrita. Il fatto che sia tradotta dal francese non sembra incidere sull’essenzialità del suo stile, sulla sincerità e asciuttezza delle storie che racconta. Così ho iniziato a leggere questo suo libro con la curiosità di sempre. All’inizio, invece, mi ha sconcertata. Volevo chiuderlo, dimenticarmene. Mi dicevo che, con questo testo, la de Vigan aveva toppato, che non si può pubblicare il resoconto di una storia familiare, davvero tragica, senza usare un po’ di pudore.

Ogni volta, invece, lo posavo in bell’ordine sul comodino, complice, e gli davo segretamente appuntamento per la sera dopo.
Niente si oppone alla notte è la storia di Lucile, la madre della scrittrice. Che, da subito, conosciamo grazie all’immagine di copertina. Una donna evidentemente bellissima. Di più: affascinante. La sigaretta stretta tra le dita, lo sguardo malinconico.

E’ a tavola, con altre persone: forse, sta partecipando a una riunione di famiglia. E’ ancora giovane, in quella foto: gli eventi non sono ancora precipitati, l’avvenire sembra presentarsi bello e possibile, per lei.

Lucile si è tolta la vita nel 2008, a poco più di sessant’anni, dopo vari internamenti in manicomio, cure per correggere il suo bipolarismo, un matrimonio fallito, due figlie messe al mondo che non ha potuto crescere. In questo libro, dunque, si racconta di lei: di una ragazza che ha letto molti libri, colta, intelligente, che è cresciuta in una famiglia numerosa, retta da un padre-padrone affascinante e temerario, e da una madre bellissima e presente.

Poi, qualcosa si spezza dentro la sua testa, segnando irrimediabilmente anche la vita di chi l’ha amata e la ama. Un destino già scritto? La pazzia come malattia ereditaria? Oppure vicende familiari sempre taciute, nascoste dietro tremendi sensi di colpa, che bloccano la volontà? Cattura, nel testo, la capacità di mettersi a nudo dell’autice, di raccontare una condizione che è quella ‘umana’.

Chi legge avverte, inspiegabilmente, di stare entrando in una storia non sua – le estati nella casa di Pierremont, le giornate passate a cucinare e a fare conserve, i bisticci dei nipoti, le ansie, le incomprensioni – ma, mentre procede attraverso le pagine, vede anche aprirsi un mondo, un modo di vivere che somiglia a mille altri. Le regole delle famiglie patriarcali, gli abusi, l’amore che non è mai come dovrebbe essere, tutto sembra vissuto in prima persona. Ecco cosa provoca quel senso di rigetto che s’avverte appena s’inizia il libro: è che, quasi sempre, non vogliamo vedere, non vogliamo sapere. Ed ecco anche, quindi, la grande forza di questo testo, che s’impone malgrado tutto e che, sostanzialmente, ci obbliga a ricordare e a vedere anche nelle nostre vite.

Perfino l’incesto, che fa la sua comparsa all’improvviso come il vero male, ‘la’ ferita, inquieta il lettore come se lui avesse da sempre saputo che sì, che questo può accadere, e accade spesso, nelle storie delle grandi famiglie.
Nella capacità di scuotere l’animo sta la potenza di questo romanzo autobiografico, che suscita passione, malinconia, avversione e attrazione. “La mia famiglia incarna quel che la gioia ha di più chiassoso, di più spettacolare, l’eco instancabile dei morti, e il rumore del disastro. Oggi so pure che illustra, come tante altre famiglie, il potere devastante della parola, e quello del silenzio”.

Recensione pubblicata, il 29 maggio 2012, su MagazineRoma e, il 30 maggio 2012, su Kafka, blog di Tullia Bartolini.

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