A proposito di Caravaggio

22di Luciano Ferrara Brunch baratto 16.03.14[di Franco Bove] Michelangelo Merisi da Caravaggio è una delle personalità artistiche più celebrate della pittura occidentale soprattutto perché le sue opere sembrano non risentire del tempo passato, mantenendo una drammatica attualità, e non essere inquadrabili in una precisa corrente di pensiero o in uno stile ben codificato. La loro forza espressiva e l’eccezionale qualità dei dettagli colpiscono ancora profondamente l’osservatore odierno. Ma, in verità, non sono solo tali aspetti a costituire la peculiarità di questo artista lombardo la cui vita si consumò in soli trentanove anni, chiudendosi misteriosamente su una spiaggia laziale. Nei suoi quadri c’è ancora altro, anche se non è immediata la comprensione delle ulteriori valenze.

Roberto Longhi, che a partire dai primi decenni del Novecento ne fece oggetto di approfonditi studi, attribuì a Caravaggio anche il ruolo di caposcuola di un notevole gruppo di artisti, i cosiddetti caravaggeschi, e, pur evidenziando la sua derivazione dagli orientamenti nordici verso il naturalismo, presenti nell’ambiente bergamasco di origine (era stato allievo del Petersano e aveva verosimilmente conosciuto i ritratti accuratissimi del Moroni, qualche notturno del Savoldo, oltre alle raffinate raffigurazioni di Lorenzo Lotto), lo giudicò un radicale modernizzatore dell’iconografia cristiana e l’inventore di un nuovo modo di intendere la realtà. Altri critici lo hanno perfino considerato un anticipatore del realismo novecentesco e, in genere, hanno messo in relazione il profilo inquieto e ribelle della sua vita con la singolarità della sua produzione artistica. Federico Zeri lo ha ritenuto l’iniziatore del naturalismo, distinguendo con sottili argomentazioni tale definizione dal verismo di marca germanica e dal realismo classicista.

Tuttavia l’immagine di geniale maudit e di precursore della sensibilità moderna sembra più dovuta all’eccessiva attenzione che la critica contemporanea  ha dedicato alla dimensione esistenziale degli artisti, quasi fosse possibile stabilire un rapporto di causa ed effetto tra le loro condizioni di vita e l’attività compositiva. E’, dunque, in parte un’eredità del romanticismo e, insieme della visione marxista dell’arte. Entrambi interpretano la produzione artistica come esclusiva manifestazione di individualità che assume significato nella caratterizzazione della Weltangshauung di un’epoca o dell’ideologia di un intero sistema politico.

Le ricerche più recenti tendono ad abbandonare questo metodo controverso di classificazione e a porre in maggiore evidenza l’appartenenza dell’artista a ristretti circoli culturali, a una limitata cerchia di committenti, che lo condizionano, e a modelli linguistici ben definiti, tenendo comunque, conto che egli intrattiene con la realtà un rapporto per lo più indiretto, anche quanto tutto sembra dimostrare il contrario. L’artista, in fondo, è destinato a comunicare attraverso le sue opere e per ognuna di esse attinge alla profondità del suo essere. Attraverso questo inevitabile processo di introversione viene prodotta l’immagine della realtà o quello che noi accettiamo come tale, anche quando, come nel caso di Caravaggio, sembra scaturire da una cosciente intenzione mimetica.

Che cosa distingue, in tal senso, il nostro Michelangelo Merisi?

Innanzitutto il suo netto superamento di quella visione scientifica dello spazio di rappresentazione, che aveva influenzato tra gli altri Piero della Francesca, Antonello da Messina, Paolo Veronese, Raffaello e Giovanni Bellini e che li aveva indotti a collocare ogni elemento della composizione in uno spazio virtuale ben delimitato, perfettamente leggibile e costruito mediante l’applicazione rigorosa delle regole della prospettiva, fino a costruire virtuosistici, stupefacenti scenari e sfondi.

Caravaggio, invece, tende progressivamente a collocare i suoi personaggi in uno spazio quasi indeterminato, ad evocarli dall’ombra come se stessero su un palcoscenico di un ridotto teatro, privo anche della illusoria profondità dei fondali, e a farli intercettare da una pluralità di luci radenti non identificabili. I suoi quadri danno quell’effetto di sorpresa che si ha quando si alza il palcoscenico e al buio d’improvviso le facce degli attori si illuminano, insieme ai loro studiati gesti.

C’è, pertanto, nel suo modo di raffigurare il recupero dell’esperienza teatrale e l’accorgimento di lasciar vedere solo ciò che serve a comunicare la sostanza dell’evento cruciale di una storia. La realtà si riduce così all’emozione del momento, all’apparenza del fatto rappresentato che, soprattutto negli ultimi anni della sua vita,  viene depurato da ogni componente allegorica e simbolica superflua, da ogni connotazione colta, la cui lettura comporti una conoscenza esoterica o, comunque, sofisticata.

Per dare maggiore efficacia a tale scelta Caravaggio si avvalse di figuranti presi dalla strada o dagli ambienti popolari che amava frequentare. Di questi soggetti sottolineò la rustica fisicità, le fisionomie sofferenti e l’ordinaria gestualità. In ciò portò alle estreme conseguenze l’eredità di alcuni grandi artisti che lo avevano preceduto, i quali come Hieronymus Bosch, Bruegel il Vecchio,  Antonio Moro e lo stesso Albrecht Durer (di quest’ultimo si veda l’impietoso ritratto della madre) non avevano esitato a riprodurre sulla tela gente dall’aspetto decisamente comune e perfino deforme. Ma sarebbe il caso di chiedersi perché i committenti di Caravaggio, che furono, è bene ricordarlo, cardinali, alti aristocratici e importanti istituzioni religiose, accettarono di acquistare quadri in cui si riconoscevano cortigiane, prostitute, una di queste raffigurata perfino con la pancia gonfia per morte da annegamento, oltre a turpi ubriaconi, rugosi contadini e feroci masnadieri. A Roma egli fu ospite del cardinale Dal Monte e frequentò Ferdinando de’ Medici, Pietro Aldobrandini e Alessandro Montalto. La risposta non si può trovare solo nel talento elevatissimo del Merisi che sublimava ogni cosa, anche particolari allusivi alla sua ambivalente sessualità. Bisogna cercarla, necessariamente, anche nel particolare clima culturale e religioso instauratosi a seguito della conclusione del Concilio di Trento. Come dimenticare le Istruzioni del card. Carlo Borromeo che accoglieva la scelta nordica e protestante del naturalismo, opposta alla tradizione celebrativa del ritratto italiano e raccomandava una pittura aderente al vero, semplice, devozionale, didascalica ed efficace nella comunicazione del messaggio cristiano? Come ignorare l’eclisse del platonismo che aveva innervato gran parte della pittura rinascimentale e le stesse opere di Michelangelo? Neppure si può sottovalutare l’azione concreta di vescovi e alti prelati nell’orientare le scelte artistiche, come nel caso del cardinale Paleotti, il quale nel suo Discorso intorno alle immagini sacre e profane del 1582 aveva prescritto: “…si dovrà curare che la faccia od altra parte del corpo non fosse fatta più bella o più grave da quella che la natura in quell’età ha conceduto, anzi, se vi fossero anco difetti, o naturali o accidentali che molto la deformassero, né questi s’avriano a tralasciare…”.

A tale orientamento si attenne palesemente Caravaggio che, dunque, rientra, nel novero degli osservanti della riforma tridentina ma con una sua particolare cifra stilistica e capacità di rimeditazione dei temi religiosi in chiave popolare che non si può ricondurre meccanicamente alla sua inquietudine temperamentale, alle pericolose vicende affettive, all’oscuro impulso ad esporsi ai rischi sfidando tutto e tutti. Caravaggio ha tratto sicuramente ispirazione dalla sue scelte di vita, dalla sua solitaria e temeraria esistenza, ma per derivarne una personale idea del male e della sofferenza. Un raggelante pessimismo matura in lui e per noi assume il senso di un’anticipazione dell’esperienza moderna. Lo si riscontra soprattutto in alcune opere quali il Martirio di San Matteo, la crocifissione di San Pietro, la morte della Madonna e la decollazione del Battista. In esse il male vi appare nella sua cruda ordinarietà, come se la morte che viene osservata in quelle scene fosse una faccenda quasi banale. Il carnefice di san Matteo è addirittura rappresentato con sembianze atletiche, di un’equivoca bellezza, quasi anticipatrice delle trafitture estatiche delle vergini barocche. Il boia del Battista sembra un macellaio concentrato su un taglio particolarmente difficile che intende effettuare col dovuto mestiere indifferente ai tormenti della vittima. La medesima ossessiva attenzione agli aspetti pratici dell’esecuzione si intravede nella crocifissione di san Pietro che guarda annichilito quel gelido affaccendarsi  intorno al suo corpo sospeso. Infine i personaggi che circondano la Madonna defunta sembrano più che altro disorientati come se si stessero interrogando sulle cause di quella fine.

Caravaggio non è il solo pittore dalla vita turbolenta. Lo fu anche il Cerano suo contemporaneo. Ma in Michelangelo Merisi la violenza che lo tormentò senza tregua si trasformò in uno straordinario riscatto estetico del negativo e non in una sorta di esibito grandguignol.

La foto è stata scattata da Luciano Ferrara durante una visita al Pio Monte della Misericordia di Napoli, in occasione del Brunch Baratto presso lo studio fotografico di Luciano Ferrara organizzato, il 16 marzo 2014, con il GAS Arcobaleno Benevento, Art’Empori, Gli Enogastronauti e Mustilli. Sul Caravaggio e su “Le sette opere di misericordia” ha introdotto lo scrittore napoletano Michele Serio (nella foto). Breve intervento anche del beneventano Maurizio Cimmino, storico dell’arte. 

2 Risponde a A proposito di Caravaggio

  1. Celum stellatum 7 aprile 2014 a 17:49

    La ricostruzione di Franco è appropriata e filologica, come lo stesso Maurizio Cimino suggeriva al termine di una introduzione alle Sette opere di Misericordia corporale piuttosto azzardata.

    Detto questo, mi sembra che di Caravaggio si tenda a sottovalutare fin quasi all’occultamento la raffinatezza della riflessione teologica che egli filtrava dalla profonda conoscenza degli argomenti e delle metafore che illustrava. A partire dalla sua esperienza di irregolare tra gli irregolari. Dentro un perimetro di committenze che ne sapeva valutare il genio oltre il talento.

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  2. Nina Iadanza 7 aprile 2014 a 17:46

    Caravaggio mi ha sempre affascinata.
    Non so dire bene perché, forse per l’impatto delle sue figure, la
    tensione delle rappresentazioni o anche la potenza del chiaroscuro che ne accentua il pathos , oserei dire quasi rabbioso. Sebbene non ami la teatralità, la sua mi colpisce e quasi mi cattura.
    Ma anche la sua turbinosa vita irregolare, violenta e insieme capace di creazione straordinaria , è per me motivo di interesse.
    Anni fa, ne portai uno studio monografico all’esame di Storia dell’arte moderna; fu per me una scoperta che da allora ancora mi affascina.
    Sentirne parlare da te, “haud mollia iussa”, dopo la recente visita al Pio Monte della Misericordia di Napoli e una sorprendente lettura in chiave iniziatica de “Le Sette opere di Misericordia”, ad opera dello scrittore Michele Serio, e un’altra più ortodossa dello storico dell’arte Maurizio Cimmino, è un ulteriore arricchimento nonché un gran piacere .

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