Banda del Bukò: da colonna sonora del cambiamento a collaborazionista della cultura competitiva?

Ci venga restituita la Banda del Bene Comune, artefice di una musica relazionale e inclusiva.

banda del buko2 artempori[di Alessio Masone] Numerosi fermenti sanniti, che si oppongono al modello culturale basato su competizione e liberismo, avevano visto, nella Banda del Bukò, un appoggio nel mondo artistico: ogni loro concerto per strada, lontano dai palcoscenici, faceva da eco a tutte le attività solidali e inclusive svolte dal volontariato locale. Finalmente, si intravedeva uno spontaneo ponte tra mondo del cambiamento e una musica che si dissociava dal modello competitivo.
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Se vogliamo effettivamente il cambiamento, non possiamo delegare, pretendendolo dal mondo dello sport, della finanza, della partitocrazia, della criminalità: tutti mondi accomunati dal paradigma della competizione e dell’esclusione. Ebbene, gli artisti e gli intellettuali, per primi, dovrebbero dare l’esempio mettendo in discussione l’analogo spirito competitivo che li anima: questo se non vogliamo un’arte collaborazionista. 
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Una volta per tutte, per fare fronte all’emergenza economica e sociale in corso, i fruitori delle arti dovranno prendere posizione: dalla parte di un’arte che insegue un’eccellenza calata dall’alto sul fruitore passivo o dalla parte di un’arte che interagisce con il fruitore promuovendo inclusione, coesione e felicità diffusa?
Avere il coraggio di rinunciare a una fruizione estetica, a cui si è assuefatti e inerti, sarebbe già cambiamento personale che si ripercuote nel mondo: non siete nauseati dalla miriade di eventi culturali che si “consumano” ogni giorno e che non spostano di una virgola il mondo?
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Non sono da disdegnare gli artisti più virtuosi e più noti, ma è da considerare che sono comunque rappresentativi di un’arte proporzionata alla fine del XX secolo, quando il mondo liberista e competitivo sembrava avere ragione su tutte le altre visioni.
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Invece, oggi, il mondo, in pochi anni, ci ha catapultato in un contesto di cannibalismo economico (odierno nazismo) che rischia di produrre genocidi economici legalizzati da governi e tribunali di ogni nazione.
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Oggi, nel XXI secolo, quando parliamo di musica, quindi, abbiamo bisogno soprattutto di “artisti p’artigiani” come la Banda del Bukò: finalmente, in mezzo al brulicare di musicisti individualisti ansiosi di svettare su tutti gli altri, il nostro territorio genera un gruppo che interpreta la musica come strumento di inclusione per “seminare pratiche di vita felice”. 
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Ma cosa resta di tutto questo, se la Banda si ritrova a suonare in un centro commerciale in onore di una rassegna musicale? Se finisce a fare da sottofondo, pur originale, a un modello culturale che ci opprime e che fa vittime tutti i giorni?
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Rappresentativa del cambiamento nell’arte, come gli artisti di strada, è un bene comune del territorio: per il ruolo impegnato, la Banda del Bukò, mi domando se avrebbe dovuto “confrontarsi” con la popolazione locale, prima di virare verso la rassegna che rischia di portarla a essere parte del sistema. Sintomatici ne sono la conferenza con tavolo di relatori contrapposti agli ascoltatori, con bicchieri di plastica, all’interno del tempio dell’aggressione ai territori qual è un centro commerciale. Un “non luogo” resta tale a prescindere da quanti artisti seduca: al contrario, sono questi che rischiano di diventare “non artisti” nell’esibirsi in un centro commerciale. 
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Qui, alcune suggestioni contenute nell’articolo che scrissi, nel luglio 2014, per conto di Art’Empori, sulla rivoluzione musicale della Banda del Bukò:
“Senza progettarlo, senza intellettualismi, spesso, si ritrovano a esibirsi come artisti di strada: spontaneamente, musicanti che arrivano all’essenza delle cose. Produttori di una musica relazionale, quella dei primordi che, senza sovrastrutture, soccorreva una popolazione locale che, scarseggiando di beni materiali, trovava almeno conforto in quelli immateriali degli artisti di strada.

Una rivoluzione, quella della musica relazionale, che, nella visione di Art’Empori, con linguaggio esperienziale, importa nell’arte le attitudini dell’economia relazionale, inclusiva, solidale, territoriale. Siamo abituati a musicisti attenti alla massima prestazione, spesso animati da un narcisismo che, complice del sistema, utilizza l’arte per competere e per escludere: qui, invece, ci troviamo di fronte alla rivoluzione musicale di cui necessita questa epoca. Fallito l’efficientismo del mondo occidentale, dobbiamo diffidare di quella produttività che viene anteposta alle persone, dobbiamo dubitare della professionalità dello strumento, l’estetica, che diventa prioritaria sulla giustizia dell’obiettivo, l’etica.”

Una risposta a Banda del Bukò: da colonna sonora del cambiamento a collaborazionista della cultura competitiva?

  1. Eduardo De Cunto 17 luglio 2015 a 19:09

    Lettera aperat sulla natura della Banda del Bukò e sulla sua partecipazione a Riverberi.

    Ho sentito l’esigenza di scrivere questa lettera aperta in risposta ad alcune critiche giunte alla Banda del Bukò in seguito alla sua partecipazione a Riverberi.
    La tesi è che, presenziando alla kermesse, la Banda abbia tradito la sua vocazione originaria. Io non condivido affatto. Le opinioni che esprimo le esprimo a titolo personale.
    Non tutti ci conoscono, dunque è d’obbligo ribadire cosa è e cosa fa la Banda.
    La Banda del Bukò nasce come tentativo di fare musica di insieme secondo premesse diverse dalle solite. Generalmente un gruppo musicale seleziona i musicisti che lo compongono: si chiama a cantare il cantante più bravo o più in sintonia con il progetto, il chitarrista tecnicamente più attrezzato, il batterista più energico ecc. Chi stona, chi va fuori tempo, viene tenuto fuori, ed è questa una dinamica del tutto normale, non va demonizzata, fa parte delle cose del mondo: se voglio fare un buon lavoro collettivo mi scelgo i compagni migliori.
    Il nostro esperimento è stato – e sarà ancora – quello di accogliere (o quantomeno provare ad accogliere) tutti coloro i quali avessero avuto piacere a suonare con la Banda, mettendo tra parentesi le capacità tecniche individuali e usando la musica come veicolo di inclusione. Insomma, i compagni di viaggio non sono stati selezionati: la musica è non il fine precostituito sulla base del quale convocare i musicisti, bensì la risultante di un processo di aggregazione spontanea.
    Ci siamo trovati così a far convivere sullo stesso palco (più spesso sullo stesso marciapiede o nelle stesse prove) musicisti esperti con principianti assoluti, adolescenti con persone mature, maestri di conservatorio con musicanti che “vanno a orecchio”. Non spetta a me giudicare l’esito artistico dell’esperimento, quello che posso dire con orgoglio è che si è fornita una grande occasione di incontro e di crescita per molte persone, che lo scambio non è stato solo dai più bravi verso i meno bravi, ma è stato biunivoco, che nonostante l’accettazione in gruppo di chi, senza tanti giri di parole, “suona male”, come ad esempio il sottoscritto, si è suonato lo stesso, e ciò che si è perso in precisione esecutiva lo si è guadagnato in energia.
    Ora, quello che non traspare, o che forse l’ascoltatore più superficiale non immagina, è che tenere in piedi un progetto del genere comporta un impegno e una quantità di lavoro notevole. Per dirla con una metafora terra-terra, fa molta meno fatica il portiere che come compagni ha Nesta e Cannavaro che il portiere che gioca “con chi ha voglia di giocare”. Ragionare in termini di inclusione, aprirsi all’altro, è bellissimo, ma comporta dedizione, pazienza, capacità di mettersi in gioco, capacità di fare concessioni mediando la propria concezione del progetto collettivo con quella dell’altro. Aprirsi all’altro, fare inclusione, vuol dire aprirsi al diverso, a chi non ti somiglia, altrimenti non è vera apertura.
    C’è chi ha visto nella Banda del Bukò un’aggregazione politica. A mio avviso è sicuramente così, ma bisogna intendersi bene sull’accezione del termine. La Banda è un progetto politico proprio perché si occupa di fare inclusione, di agire nella città e presentare un modello aggregativo diverso, non competitivo, fatto di “pratiche di vita felice”, come tante volte ci è piaciuto affermare. Se qualcuno, viceversa, ha pensato che la Banda aderisse a un modello ideologico precostituito mi duole comunicargli che si sbaglia: fare questo significherebbe contraddire le premesse di apertura e inclusione, imporre una visione unica dei massimi sistemi che non ci interessa. Ribadisco: aprirsi e includere significa accettare tanti modi diversi di vedere il mondo.
    Tra di noi si discute e ci si scontra. Quando sorgono dubbi su cosa sia giusto o non giusto fare si parla, e non è detto che le posizioni di partenza siano sempre concordi. Trovare l’armonia è un processo faticoso, molto più faticoso che ancorarsi a punti fermi inamovibili, a prese di posizioni rigide. Ma è l’unica via alternativa all’individualismo.
    Non si può negare: non sempre si riesce a trovare l’accordo, e anche quando si prende una decisione – il più delle volte si prova a farlo ricercando l’unanimità – nessuno si illude di aver trovato la soluzione più giusta in senso astratto, ma sa di averla ricercata sul piano concreto.
    Alcuni compagni di strada, per i più disparati motivi, hanno scelto di allontanarsi durante il percorso; alcuni poi sono tornati, altri se ne sono aggiunti, altri se ne andranno e altri si aggiungeranno. Da un certo punto di vista è anche questo il bello di un’aggregazione viva che muta forma. Se mi chiedete qual è il mio auspicio per la Banda vi rispondo che ho un auspicio molto molto ambizioso, del tutto disancorato dalle mie ambizioni personali: che continui a esserci con altri elementi, quando noi fondatori non vi prenderemo più parte, a offrire alla città uno stabile modello di musica inclusiva.
    In questi giorni qualcuno – per la verità non poi così tanti – ha sostenuto che partecipare a Riverberi, accettando di presenziare alla conferenza stampa del centro commerciale “I Sanniti” e di suonare nell’ambito di un festival che prevedeva ingressi a pagamento, abbia significato contraddire le premesse ideali del nostro gruppo, abbia significato collaborare con il sistema della competizione e della mercificazione della cultura.
    Facciamo un passo indietro. Riverberi, anche tramite la sponsorizzazione della Croce Rossa, ha deciso di puntare sul nostro progetto, pur sapendo di non avere a che fare con musicisti professionisti, e di produrre il nostro piccolo “Rosmarinus”, che tutti noi amiamo come un figlioletto. Per chi vuole fare musica avere un’opportunità di crescita, una sfida, è di necessaria importanza per trovare le motivazioni dello stare insieme, per dimostrare che un’aggregazione non competitiva può raggiungere traguardi non inferiori a quelli degli altri gruppi e, perché negarlo, per concedersi le gratificazioni che ripagano del lavoro, dell’impegno e del tempo speso. È vero che l’evoluzione non deve contraddire il principio di inclusione, ma non è vero che per fare inclusione occorra rimanere fermi e non tentare di migliorarsi anche musicalmente. Anzi, chi ha preso parte al progetto continuativamente sa che, nelle dinamiche concrete, se si mortifica la voglia di migliorarsi, di suonare bene, di volare alto, il progetto muore, i più talentuosi abbandonano, si rischia di riproporre una versione di se stessi stanca e priva di smalto.
    Registrare questo album ha rappresentato la più difficile delle nostre sfide. Confesso che l’atmosfera all’interno della Banda non è mai stata così tesa e conflittuale come in questo periodo: si trattava di fare un lavoro che metteva alla prova tutti, dai più impegnati a coordinare il gruppo (ragazzi, non avete idea della fatica di organizzare un collettivo di 30 persone quando c’è un lavoro serio da fare!) ai meno attrezzati tecnicamente, intimiditi da microfoni e studi di registrazione. Tuttavia ce l’abbiamo fatta, Rosmarinus è nato ed è un bel bambino, e tutti noi abbiamo la sensazione di aver valicato il picco di una montagna, e di essere finalmente in discesa, coesi più di prima come chi ha intrapreso insieme una avventura importante.
    Grande motivo di orgoglio per noi è aver permesso l’esperienza della registrazione a persone giovanissime o non più giovanissime; a chi altrimenti non avrebbe mai fatto questa esperienza; a chi ha intrapreso lo studio di uno strumento da molto poco e obbiettivamente non ha un bel suono o una grande capacità di non sbagliare; o semplicemente a chi non è molto portato e quindi qualche sbavatura la fa. C’è anche chi ha criticato questo approccio: secondo alcuni non era il caso di far registrare chi non ne era all’altezza. Ma noi siamo la Banda del Bukò, e questi discorsi non li amiamo: meglio un cd un po’ sporco in cui ci sono tutti che un album perfetto dove tutte le parti di sax sono eseguite da Emanuele, il nostro bravissimo maestro di conservatorio! Dunque le accuse di “collaborazionismo col sistema della competizione”, oltre che a suonare un po’ ridicole (suonare proprio nel senso acustico del termine), ci fanno male perché ci sembrano francamente ingenerose.
    Presentare l’album nella bella cornice dell’Arco del Sacramento è stato per noi un momento di celebrazione e di gioia. I compagni di strada che non hanno preso parte all’esibizione hanno comunque fatto sentire la loro presenza venendo ad ascoltare, portando piccoli doni – rametti di rosmarino, che per noi assumono un significato enorme – o, trovandosi lontani, inviando i loro messaggi di in bocca al lupo. Da parte nostra noi li abbiamo presentati come fossero con noi sul palco. Chi ci ha sempre seguito in diversi contesti ha ascoltato la nostra performance dando testimonianza di affetto, o sacrificandosi e pagando il biglietto di 15 euro, o assistendo da fuori, giacché la location lo permetteva.
    Ebbene sì, la pietra dello scandalo è stato il biglietto di 15 euro, che, ce ne siamo resi tutti conto, avrebbe tagliato fuori una parte di uditorio, quella meno facoltosa (anche se anche ciò è relativamente vero e va riportato alla sua dimensione reale: dopo pochi minuti dall’inizio della nostra esibizione i cancelli sono stati aperti a chi stava assistendo dall’esterno). Ma basta questo per bollare Riverberi come un festival turbo-capitalista e la Banda del Bukò come un gruppo che si è montato la testa e ha aderito allo star system?
    Tutti coloro che hanno a cuore l’inclusione sociale vorrebbero che la musica arrivasse a tutti, a maggior ragione a chi ha difficoltà a permettersi anche piccole spese. La domanda è: il compito di garantire un’offerta culturale accessibile spetta al settore pubblico o all’iniziativa del privato? È banale a dirsi, ma forse a questo punto non superfluo: organizzare iniziative musicali di valore ha dei costi importanti; il lavoro dei tecnici del suono e di chi fornisce attrezzature va giustamente retribuito, come quello di chi si occupa della logistica. Poi ci sono (ahimè) i costi di Siae, quelli della concessione del luogo pubblico (ebbene sì) e tanti altri che l’organizzazione del festival ben sa e che io, nel dettaglio, ignoro.
    Non è il lucro il movente che rende necessario reperire risorse economiche.
    Per conto nostro abbiamo suonato, ancora una volta, gratuitamente (ci sarebbe mancato altro, il nostro lauto compenso, anche di carattere economico, è stata la produzione dell’album!) come già capitato diverse volte nel caso di iniziative che ritenessimo degne del nostro supporto.
    Laddove le istituzioni pubbliche hanno sovvenzionato il Festival Riverberi sono stati messi in cartellone concerti gratuiti e di livello (personalmente non penso proprio mi perderò Rita Marcotulli a Pietrelcina o Gegè Telesforo a Torrecuso, giusto per citarne un paio). Laddove questo supporto economico non c’è stato, come a Benevento, le alternative erano tre: affidarsi alla generosa e graziosa elargizione di un miliardario mecenate, organizzarsi per reperire risorse o non fare un bel niente. Esaminiamole tutte e tre.
    La prima alternativa è puramente teorica. Poniamo il caso che questo facoltoso mecenate ci sia (facciamo nomi: Luca Aquino, noto miliardario, impazzisce e paga tutto di tasca sua): sarebbe opportuno affidargli il ruolo di chi assicura a tutti cultura gratuita? Attenzione, il terreno è pericolosamente scivoloso. La fruizione della cultura non può essere affidata a chi detiene il potere economico. La politica italiana recente è stata dominata da chi ha costruito il proprio consenso tramite la gratuita elargizione di spettacoli, propagandando un determinato modello culturale e perseguendo intanto i propri interessi. No, signori, la prospettiva non mi aggrada affatto.
    Organizzarsi per reperire risorse economiche diviene così un passaggio necessario, a meno che non si voglia sostenere che sarebbe stato meglio Riverberi non fosse stato organizzato affatto.
    Così se ne andrebbe a farsi benedire un tentativo di apportare un’offerta culturale valida alla città e alla provincia, non si capisce a vantaggio di chi o di quale visione del mondo. Forse di quella visione del mondo per la quale aprirsi a ciò che accade lontano dal proprio cortile è il Male, per cui la valorizzazione dell’ambito locale si attua tramite la chiusura alla cultura che viene da altri luoghi. Chi fa musica sa che per suonare bisogna continuamente coltivare ascolto, è la cosa più importante di tutte. Ma voi ve lo immaginate Morricone che ignora Mozart, i Pink Floyd che ignorano i Beatles, Pavese che ignora i poeti americani – è lo stesso discorso – o, nel suo piccolissimo, la Banda del Bukò che non ascolta musica balcanica? Assistere a spettacoli come quello di Hakon Kornstad e di Paolo Angeli è uno stimolo importantissimo per musicisti e musicanti. È molto semplice: osservando quelli bravi ci si coltiva e si cresce. Bollare artisti del genere come imposti dalla dittatura del capitalismo liberista è davvero eccessivo, lascia a intendere non solo che non li si è ascoltati – altrimenti si sarebbe capito che un messaggio artistico alla base delle loro esibizioni non solo c’è, ma arriva pure – ma anche che si teme l’apertura al mondo e si sente il bisogno di chiudergli le porte in faccia.
    Dispiace, davvero dispiace che tali esibizioni non siano state appannaggio di tutti, ma l’auspicio non è certo la dissoluzione del tentativo portato avanti da Riverberi, bensì la sua crescita e l’attenzione da parte delle istituzioni pubbliche, affinché l’anno prossimo non solo gli eventi in provincia, ma anche quelli in città, siano aperti a tutti.
    A chi mi dice che la Banda del Bukò dimentica il bene comune rispondo che la Banda è concretamente e caparbiamente impegnata per il bene comune, e tenta di perseguirlo nel mondo della realtà, e non in mondi perfetti ma, ahimè, irreali. Nessuno sceglie il mondo in cui nasce, e in ogni esistenza si fa i conti con tutto ciò che è ingiusto ed è contraddittorio.
    Il centro commerciale non rappresenta un modello che a me personalmente piace. Sono certo che questo pensiero sia condiviso da molti dei miei compagni di percorso. Cosa fare, allora? Rifiutare di recarci lì? A voler adottare lo stesso metro occorrerebbe porsi infiniti problemi, come quello di non suonare fuori città, per evitare di consumare benzina, o di non acquistare un libro se non stampato su carta riciclata.
    È chiaro che giocare a questo gioco a ritroso ha l’unico risultato di doversi chiudere in casa e cercare da soli il Nirvana. Non me ne voglia nessuno, ma questa prospettiva non mi ha mai affascinato molto, o almeno difficilmente affascinerà chi si è messo in testa di fare integrazione sociale! Tutti noi vogliamo un mondo migliore, ma il mondo che abbiamo è questo, e l’imperativo morale è di migliorarlo un po’, almeno un pezzettino, a piccoli passi, di non tradirlo in nome di mondi perfetti ma irreali. “Rimanete fedeli alla terra”, diceva qualcuno.
    Quando si vogliono migliorare le cose le contraddizioni si incontrano, sono tante, è nell’esperienza di tutti. Ed è soprattutto nell’esperienza di chi nelle cose ci mette tutto il proprio impegno, di chi con tutto ciò che non va ci si incontra e ci si scontra, senza fuggire nella rassicurante perfezione delle proprie proiezioni mentali, dove ogni impurità può essere rimossa con un semplice sforzo di fantasia. Ribadisco, chi prova a costruire sa quanta fatica e quanta pazienza richieda. A distruggere e a lanciare scomuniche e anatemi, invece, non ci vuole niente.
    Io conosco e difendo tutte le aspettative, gli investimenti emotivi, di impegno, di tempo e di energia miei e dei miei fantastici compagni in questa piccola e forse imperfetta realtà che si chiama Banda del Bukò, che in fondo ha solo un anno e mezzo di vita, e che dunque va protetta come un germoglio.
    Scusate questo fiume di parole, le avevo in petto.
    Viva Riverberi, e viva la Banda del Bukò!
    Eduardo De Cunto

    P.s.: tanto per rassicurare, la Banda del Bukò non si è montata la testa e continuerà a disturbare la quiete delle pubbliche vie.

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