vergì

testo e foto di alessandro caporaso

il mio migliore amico non ha un soprannome e questa non è una buona cosa.

tutti nel nostro gruppo hanno un soprannome, cioè tutti soffrono di doppia personalità perché manco a farlo apposta a tutti noi, quei quattro scellerati che vagano per la città quasi senza meta, che poi è la birra al morgana, gli calza a pennello.

mi è venuto in mente di sanare questa discrepanza, che poi non siamo tutti uguali, e se è vero che il soprannome ti segue e ti insegue per tutta la vita, non voglio esagerare.

-mi chiamo ver-gi-né-o

lo diceva con la è aperta, molto aperta, tanto da sembrare scèèèèmo.

eravamo alle gare di atletica leggera. a noi non piaceva tanto, ma ci trovammo immischiati in quello sport di sola sofferenza perché, all’inizio e solo all’inizio, c’erano al campo coni molte ragazze. andammo lì con un solo scopo e ci ritrovammo invece a dover fare il lavoro.

ora dire il lavoro è dire poco, ma a quel tempo significava dover ammazzarsi per prepararsi per le gare estive. insomma un tipico allenamento era correre, per una serie ripetuta almeno tre volte, per la tanto odiata salita della madonna della salute. per puzza di piedi* o slimer che si allenava per la concorrenza, cioè per una squadra di napoli, non era niente, ma per noi significava la morte.

ver-gi-né-o era molto fortunato, lui faceva solo il lancio del disco e del martello, forse da qui gli è venuta la voglia di fare l’archeologo. cioè dal fatto del discobolo di mirone, penso. non lo so le mie sono solo congetture. e non doveva allenarsi con noi. cioè noi del salto in alto, noi dei 100 piani, che non è un grattacielo, noi dei 110 ostacoli, che non sono le difficoltà che si incontrano quando sei adolescente, noi…  ett-cetera ett-cetera.

insomma, mentre (ancora) noi buttavamo il sangue per le salite di benevento, lui se ne stava nella gabbia a slogarsi un braccio che poi quando era stanco dovevi stare attento a che non ti lanciava il disco tra le gambe. una volta successe e quello che faceva il salto in lungo, uno tirato che camminava sulle punte, lo rincorse per tutto il campo.

comunque, la questione era che ogni volta che andavamo a fare delle gare, e ne facevamo davvero molte, ci chiamavano all’alto-parlante, gracchiando i nostri nomi. il più delle volte non si capiva niente, ma di sicuro si capiva che ogni volta sbagliavano la pronuncia. non che vergineo sia tanto difficile da pronunciare, ma era prerogativa dello speaker sbagliare.

vergileo, virginio, virgilio o addirittura vergilèo.

mai che lo azzeccassero per una dannata volta, cioè lui si incazzava sempre come un caimano, che poi a dir la verità non solo so come si incazzano i caimani, ed era costretto ad andare dai giudici di gara ad urlare il suo cognome

-vergineo. mi chiamo vergineo.

e quelli che lo guardavano come per dire certo virgilio.

ricordo ancora la prima gara, quando per la prima volta lo chiamarono virgilio. eravamo ad avellino e l’acqua veniva giù peggio che nella canzone di jovanotti. dovevamo gareggiare in più gare tra cui i 110 ostacoli, il salto in alto e il lancio del giavellotto. nelle due prime gare eravamo abbastanza scarsini, ma nel giavellotto eravamo davvero delle mezze-seghe.

virgilio si prepari per i 110 ostacoli. Ecco la voce dello speaker gracchiare il suo falso cognome e le prime risate venivano giù. cioè non è che gli ridevo alle spalle, ma in faccia, altrimenti che amico sarei stato. Comunque ci preparammo per la gare. il giorno prima, il professore, così chiamavamo quello che aveva in gestione il campo coni, che poi non so fino a che punto è professore, distribuì le scarpette chiodate, che sono una menata pazzesca. Io ne avevo un paio argentate della nike. Si vedevano solo loro.

vergineo, oppure a questo punto del post dovrei dire virgilio, non ne aveva neanche un paio.

scivolò per tutta la gara.

non è che ora sto a raccontare della seconda gara, quella del salto in alto, dove virgilio, come continuava a chiamarlo lo speaker, invece di saltare l’asta, finì sotto il materasso perché scivolò, senza le scarpette chiodate.

la questione era proprio che sbagliavano sempre la pronuncia del suo cognome.

-vergì, se ti va bene te lo tieni, cioè in nome dei tanti cognomi ti do questo, che poi è anche il modo in cui ogni tanto ti chiamiamo. se poi non ti va bene, allora pazienza. ma ricordati che sarai sempre la bionda, per via di quel tuo culetto piccolo piccolo che quando ci facciamo la doccia dopo una partita a calcetto ti sfottiamo sempre.

nella foto sono io, alessandro caporaso e non muccino. questo lo dico agli amici che si stanno scannando su facebook perché carpe diem potrebbe concorrere alla prossima sceneggiatura di un film di muccino.

*puzza di piedi era il bertozzi che correva sempre, ma siccome urlare puzza di piedini per tutto il campo coni ci voleva molto fiato, e noi non ne avevamo, urlavamo slimer, che poi era quel fantasma di ghostbuster, quello che puzzava. Non è che puzza di piedi puzzava realmente, era solo un identificativo per chi faceva il mezzo-fondo, e noi che eravamo delle mezze-pippe nella corsa dovevamo sfogare contro di lui la nostra repressione. in futuro il bertozzi sarà chiamato anche gino-filtro, per la sua propensione a preparare velocemente e con cura minuziosa i filtri per le sigarette simpatiche.

3 Risponde a vergì

  1. Alessio Masone 1 dicembre 2010 a 16:05

    Concordo con Nicola.
    Alessandro ha un piglio molto personale nello scrivere.
    Alla ricerca di un’autenticità che viene prima di una scrittura opportuna, accreditata, omologata.
    Lo scrittore Alessandro supererà il fotografo Caporaso?

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  2. alessandro caporaso 30 novembre 2010 a 11:22

    visto che è la terza volta che commenti i miei post, ora è giunto il momento di ringraziarti, nicola, che sei l’unico di questa comunità ad apprezzare.
    ora non è per fare pubblicità ai miei post, chi se ne frega, ma è solo perchè mi lusinga ricevere commenti positivi, io che sono ancora uno studentello.

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  3. Nicola Sguera 30 novembre 2010 a 6:41

    Mi ha fatto ridere di gusto, con intelligenza. E’ bello sapere che in città c’è tanta creatività, tanta buona scrittura che diventa comprensione del presente, descrizione del reale capace di diventare surreale, vita che si distilla in forma.

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