Tutti i colori di Alessandro Caporaso

Se per uno spazio temporale di 2 ore un pezzo della villa di Benevento si fosse trasformato in un giardino parigino? E i colori intorno, il verde, il blu,  il giallo, il rosso, fossero spariti lasciando solo i non colori bianco e nero? Se come in “Midnight in Paris “ di  Woody Allen fosse per magia arrivata un’automobile d’epoca in grado di spostarsi nel tempo per soddisfare il desiderio di abitare il passato? È la sensazione che ho avuto intervistando Alessandro Caporaso,  giovane fotografo beneventano.

Alessandro lo conosciamo in tanti, lo vediamo spesso in molti eventi locali soprattutto culturali, sempre con la sua macchina fotografica. Si sposta continuamente tra la gente e quasi invade gli spazi scenici pur di cogliere dettagli. È alto e non passa inosservato, in molti lo notiamo e lo ricordiamo anche per questo: “Alessandro Caporaso, quel ragazzo alto che fa fotografie e scrive su bmagazine”. Forse in meno sappiamo che a dispetto dell’ atteggiamento sicuro è in realtà un perenne timido e che lui la sua altezza  non la ama particolarmente. “Essere alto è un vantaggio con le foto, se sono tra la gente basta che alzo il braccio ed è fatta, ma per il resto è più o meno un problema. Se passeggio in compagnia di una ragazza sfiguro, non entro in alcune automobili e in alcune porte, le scarpe è un casino trovare il mio numero e con i jeans mi tocca prendere una mezza taglia in più che la mia poi è corta “.

E poco sappiamo della sua passione per la fotografia. Da dove nasce e di cosa si alimenta? Cosa ci dice di questo ragazzo dall’aria malinconica? Gli ho chiesto di raccontarmi di sé attraverso la fotografia.

Della sua passione ho scoperto l’origine affettiva:  il ricordo emozionale di bambino che accompagnava il nonno a fotografare matrimoni e si divertiva a mantenere il flash in modi strani; il ricordo sensoriale della camera oscura in cui la foto diventava pian piano un oggetto attraverso un processo oggi del tutto scomparso nella fotografia digitale. Emozioni e sensazioni legate ormai indissolubilmente alla macchina fotografica dato che ancora oggi ogni singolo click, “che non è il rumore di un pulsante ma quello dell’otturatore che si apre per far entrare la luce” lo riportano al passato, “ai miei ricordi con nonno e con la camera oscura”. E quando il click proveniente dalla zona specchio dentro la macchinetta non è sufficiente a soddisfare questo bisogno continuo di passato Alessandro ricorre ad un altro ricordo sensoriale, quello di un flash di sorpassato utilizzo.  “Accendendolo  esce un suono bassissimo, non te lo so ben descrivere, è una specie di fischio. Mi attira tantissimo, ogni tanto devo prenderlo e sentirlo.”    Nel tempo la passione si è alimentata anche di studio, di cultura, di conoscenza, di tecnica. “Nella mia facoltà, beni culturali, c’era un corso di storia della fotografia tenuto dalla professoressa Maria Gabriella Guglielmi. Io quell’esame non ce l’avevo nel piano di studi ma lo scelsi ugualmente come opzionale. Ero curioso di scoprire la fotografia nell’arte e da allora la mia passione ha cominciato a trasformarsi in quello che oggi è il mio lavoro”.

Ancora, di questa passione Alessandro ne ha condiviso l’uso, raccontare. “L’idea di fotografia per me non è conservare il passato, esprimere creatività o emozioni, semplicemente raccontare. Di qualsiasi cosa che in quel momento mi colpisce, una goccia che cade, un gesto, uno sguardo”.     Come si fa a raccontare ? Cosa c’è tra un click e la foto ? “di fronte ad una situazione ho già in mente un immagine mia da creare. Ad esempio se c’è un uomo da fotografare io posso averne immagini diverse, in movimento, fermo, oppure un fantasma. Sono istanti. Guardo, penso, scatto. “

Quelle di  Alessandro sono spesso foto di dettagli, pezzettini di un insieme. E ancora, foto in bianco e nero piuttosto che a colori, e con i contrasti netti piuttosto che con le sfumature. Ritratti spontanei piuttosto che pose programmate. Racconti di eventi piuttosto che pezzi di vita personale.

Quindi, se è vero che la fotografia viene da un’immagine personale della realtà, attraverso essa Alessandro esprime qualcosa? Fotografare per raccontare momenti, ma nel mentre finisce col raccontare di sé.

Di come gli piace soffermarsi sui particolari. Della malinconia come stato d’animo costante nella sua storia, “io guardo molto i fotografi vecchio stile, loro fotografavano in bianco e nero perché la fotografia permetteva solo questo. Ed era una cosa molto bella perché bisognava pensare la realtà senza colori. Ed era tutto più autentico perché la foto non subiva le modificazioni che subisce oggi attraverso il digitale”.  Della tendenza a fare  scelte categoriche e definitive, “nella foto in bianco e nero io amo creare il contrasto”. Di quanto sia spesso difficile incontrarsi con l’altro all’interno di una interazione o di una relazione, “è difficilissimo fotografare le persone perché non possono riprodurre l’immagine che io  ne ho in mente e  allora preferisco  fermarle semplicemente in momenti casuali”. Delle difese per proteggersi dai rischi e dalle delusioni, “io faccio di tutto per non farmi fotografare, preferisco gli autoritratti perché posso controllarli. Gli indiani d’America dicevano che la fotografia ruba un pezzo di anima. Io a questa leggenda ci credo. Perché mai dovrei lasciarmi prendere qualcosa di mio, che mi appartiene nel profondo ?

E le emozioni ? “un fotografo deve essere cinico mentre scatta, non farsi prendere dalle emozioni. Se c’è un cane che viene maltrattato quella è l’informazione che devo raccontare. Terminata l’informazione vado a soccorrere il cane.”  “E le emozioni sono qualcosa di troppo veloce. A me piace osservare le persone, i dettagli del volto. All’improvviso succede qualcosa e compaiono espressioni  diverse che non sono le loro. Puo’ essere anche una frazione di secondo e non è detto che faccio in tempo a prenderla con la mia macchinetta.

Davvero la fotografia racconta solo momenti ? O è vera la leggenda degli indiani d’America? E magari funziona anche quando si è dietro l’obiettivo oltre che avanti ?

Io questo ad Alessandro non ho avuto bisogno di chiederlo . E lui dice che le foto che vediamo sono racconti .  Solo una volta ha voluto condividere qualcosa di “veramente personale” nel suo album “SCRITTURA DI LUCE”. “Sono foto costruite con solo tecnica, sono forme e colori che volevo scrivere nell’aria. Fotografare significa scrivere con la luce e io appunto ho scritto con la luce. Ho condiviso quelle foto con due obiettivi. Il primo spiegare cosa significa fotografare. Il secondo esprimermi, parlare di me. Pensavo a quei test di personalità in cui ci sono disegni strani che interpretandoli  proietti quello che sei.  Ecco, io ho voluto fare lo stesso, solo che i segni li ho inventati e costruiti io ”.

Foto di Alessandro Caporaso tratta dall’album SCRITTURA DI LUCE

I colori, allora esistono! Non ci sono solo il passato e il bianco e nero .

Ho chiesto ad Alessandro di creare, questa volta solo con l’immaginazione, senza macchina fotografica, autoritratti temporalmente datati anche presente e futuro.

Dal presente è venuta una foto emotivamente complicata:  un ragazzo in continuo movimento tra i vicoli di una città  che ha già fotografato tutta e comincia a stargli stretta, con lo sguardo assente che non sa ancorarsi a punti fermi se non il desiderio di viaggiare e fotografare : “non mi interessa avere una macchina, soldi in tasca, vorrei solo vedere il mondo e fotografarlo”. Dal futuro è venuto una foto emotivamente indefinita: un ragazzo su Pont des Arts  che fa esattamente ciò che vuole, fotografie nella Parigi da cui ha indirettamente imparato l’arte di fotografare e raccontare.

Foto che comunicano instabilità presente e incertezza sul futuro, qualcosa di comune a noi giovani, tutto nella norma. A quel punto gli ho guardato  le scarpe, converse colorate – con queste si che porta in giro la sua canon senza stancarsi –  fa di una passione il suo futuro,  progetti ed energia . Potevo finire l’intervista, grazie per queste ore trascorse insieme.   E l’ho salutato, magari ci rivediamo a Parigi .

 

Mariapaola Bianchini, psicologa

Una risposta a Tutti i colori di Alessandro Caporaso

  1. Nunzio Castaldi 18 febbraio 2013 a 0:39

    un’intervista molto tenerea ed autentica, Mariapaola

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