I paradossi di Facebook: “Farmville” di Peppe Porcaro

Farmville di Peppe Porcaro – 11 febbraio 2010 – da Sanniopress

Confesso, mi sono iscritto da poco a fascbuc. Per meglio dire, al cazzatoio gigante mi ha iscritto mia nipote Laura: “Zio, non troglodire, come fai a rinunciare a fascbuc? Non sai che ti perdi. E poi vedi che di fatto gia ci sei su fascbuc perché Ugo (fetente!) ha attivato un parla con peppe porcaro. Dunque, rilassati. Ora ci penso io, non ti preoccupare. Ti metto su fascbuc, ti faccio il profilo”. Detto fatto, in un solo colpo sono fregato. Mi ritrovo su fascbuc con la mia bella foto, il mio bel profilo. Sono un uomo nuovo, ora. Più leggero, dicono. Tutto spirito e niente carne. E non sono passato neppure da Lourdes.

Devo confessare però che ai tempi del fanculofascbuc vivevo bene. Quanto bastava. Conservo ancora, per fortuna la mia bella email. Da anni grazie a quella casella di posta ho contatti quotidiani con amici vicini e lontani, ci si scambia riflessioni più o meno serie e pensieri leggeri in assoluta libertà. Certe volte, faccio ammenda, troppo in libertà. A volte ci si scambia vere e proprie puttanate, naturalmente. Tutto però avviene con il giusto tempo tra uno scritto e l’altro. Perché il pensiero, debole o forte che sia, ha bisogno di una giusta fase di sedimentazione affinché qualcosa resti infine nella zucca. E poi il concetto di base, il non detto tra noi ma sempre rispettato è: mai troppe puttanate in una volta sola… E poi vuoi mettere: uno parla (scrive) l’altro ascolta (legge).  Poi se vuole, se ha qualcosa da aggiungere, con il tempo, il suo tempo, risponde.

Da quando però sto su fascbuc la cosa è diversa, una corsa continua, le parole si mischiano, una sull’altra. E le persone, pure. Una promiscuità mai vista. Tutti a chiederti l’amicizia. E tu che fai rifiuti? Gli dici, scusa ma se per strada quando mi incontri manco mi saluti e ora mi vedi su fascbuc e mi chiedi l’amicizia? Bene, se davvero la vuoi, tieni allora la mia amicizia. Poi però arriva il pentimento: cazzo, perché mi svendo così, potevo rifiutare. E la domanda che nasce da dentro: ma ora che siamo amici su fascbuc che farà, mi saluterà quando capiterà di incontrarsi o che? Come ci si comporta in questi casi, c’è un galateo in fascbuc o è terra di nessuno?

Intanto il guaio è bello che fatto, ho un nuovo amico. Un amico, peraltro, per nulla discreto. Me lo ritrovo continuamente a rovistare tra le mie cose: quante volte mi collego, a che ora, con chi parlo, che dico. Un impiccione. Ma l’amico (somma sventura) , come le peggiori disgrazie, non viene mai da solo. Il malefico ha i suoi di amici, troppi, che ti vedono (toh, c’è pure lui) e, come non aspettassero altro, pronti ripetono la fatidica, disperata, domanda: voglio essere tuo amico, mi vuoi? Ma che è, un’epidemia? Capisco la solitudine (la paura della) ma qui si esagera. Tu naturalmente quelli manco li conosci, però puoi dare ragione a Laura? Che fai, troglodisci? E poi si sa, è costume, gli amici degli amici sono miei amici. E dunque ci ricaschi. E si ricomincia. Una sorta di girone dantesco senza il conforto della poesia del Sommo.

Da qualche tempo tutti questi amici mi inondano di messaggi perché hanno deciso, punto, di diventare agricoltori. Si sono addirittura fatti una propria Farmville. Auguri allora, a voi che piantate patate e fagioli, e grano e tutto il ben di dio e solo dopo pochi giorni raccogliete e portate al mercato. E che allevate animali, costruite stalle e fienili e dio sa cosa altro ancora. Sono felici i nuovi contadini. Però vogliono il tuo aiuto. Lo pretendono. E mi dai questo, e mi serve quest’altro. Questo mi avanza, lo vuoi? No, non voglio niente, grazie. Davvero. Non mi serve il tuo cavolo, anzi non mi serve un cavolo di niente. Contrattacco: in verità io un’azienda agricola (sai la terra, le piante che crescono lentamente con i loro tempi e non con quelli di fascbuc?) la gestisco per davvero. Mi servirebbero braccia per dissodare il terreno e metterlo in coltura. E braccia, tante, per la raccolta. Quest’anno penso di metter su fagioli e ceci, carciofi e grano. C’è pure la vigna e l’ulivo da accudire: che fai vieni? ho chiesto ad un amico qualche giorno fa. Mi ha tolto il saluto. Anche su fascbuc.

Una risposta a I paradossi di Facebook: “Farmville” di Peppe Porcaro

  1. L'uomo della strada 20 febbraio 2010 a 8:47

    Orgasmo per Facebook

    & Tom Sawyer
    ————————————-
    Massimo Simeone

    Il racconto di Porcaro è molto gustoso e stimolante per gli spunti di riflessione che offre.

    Personalmente non sono iscritto a Facebook (senza avervi peraltro alcuna preclusione ‘ideologica’), e davvero non riesco a capire tutto questo orgasmo per questo network, ora beatificato come la panacea di tutti i problemi dell’umanità, ora demonizzato come il peggiore dei mali.

    E trovo singolare che uno strumento nato come album o annuario virtuale di foto di vecchi compagni di corso che si cercano in tutto il mondo per ritrovarsi e ricordare i bei tempi, venga caricato di tante aspettative e significati, il che è come voler attribuire significati reconditi al fatto in sé di mettere una foto o ritratto del tutto normale in un album e mostrarla in giro e aspettarsi da ciò una palingenesi della società.

    Nel nome del network, del resto, è contenuta l’essenza dello stesso: facebook ossia libro, album di ritratti, di facce, di apparenze di vite o anche “wall”, parete informatica a propria disposizione dove esternare un proprio sè più o meno aderente alla realtà o posticcio, o veicolare pensieri immagini, foto, suoni , filmati, propri o d’altri, secondo una comunicazione tendenzialmente breve ed informale, allo stesso modo in cui diffondiamo biglietti da visita o ns. succinte biografie cartacee più o meno veritiere, o chiediamo un parere lampo orale su un nostro vestito, su una nostra idea brevemente esposta a parole, o una firma in calce a liste cartacee di candidati politici, a petizioni o manifesti di ogni genere, spesso neppure letti per insipienza dei firmatari e dolo/approssimazione dei proponenti, a cui magari molte volte interessa soltanto racimolare un tot di nomi di cui farsi forti per i propri scopi, senza vero interesse per le convinzioni, le idee e i problemi delle persone che stanno dietro quei nomi.

    Utilizziamo la scrittura e la carta per comporre e stampare utili volumi di filosofia storia medicina, per scarabocchiare ghirigori senza significato per vergare la lista della spese , per insulsi (…) e scollacciati calendari, per veicolare una pubblicità massiva e invadente che satura le cassette postali e i parabrezza delle macchine, per chiamare a raccolta i ns. simili e mobilitarli per una causa più o meno nobile, o eccitarli all’odio razzista … o invitarli alla nostra festa… la colpa o i meriti di tutto ciò sono della carta e della scrittura?

    Certo, come ammoniva Mc Luhan, il mezzo è il messaggio, uno strumento di comunicazione non è mai neutro e occorre sempre analizzarlo a fondo per verificare in che modo esso influisca sul messaggio che si comunica, e come condizioni chi manda e chi riceve il messaggio, e se davvero si realizzi con esso una comunicazione e un’interazione paritaria e bidirezionale .

    [ Un insegnamento, sia detto tra parentesi, che mi aveva indotto a temperare con alcuni spunti di riflessione critica l’entusiasmo di Alessio che, forse troppo affrettatamente, appena qualche tempo fa celebrava enfaticamente il crollo del centralismo ideologico e informativo proprio del secolo scorso e l’avvento, nel secolo XXI, della comunicazione orizzontale propiziata dal web, quasi alba di un nuovo ‘Rinascimento’; cfr. sul web il commento dell’uomo della strada inviato il 16luglio2009 a

    http://beneventoecosolidale.wordpress.com/2009/07/06/dal-crollo-del-centralismo-ideologico-ed-economico-una-cultura-per-il-xxi-secolo-bmagazine-artempori-magazine-giugno-09/ ]

    Ma, in definitiva, almeno per i mezzi qui citati, la colpa o i meriti sono essenzialmente di coloro che utilizzano la carta e la scrittura… o Facebook: allo stesso modo, più o meno intelligente o sciocco, per fini nobili o ‘perversi’ o insulsi, possiamo utilizzare o può essere utilizzato Facebook.

    Che è poi, a ben vedere, l’essenza del racconto di Porcaro.

    Facebook, secondo la classificazione antifrastica (e non sempre chiara e coerente) di McLuhan, ben potrebbe definirsi “strumento di comunicazione freddo”, pur con tutti i suoi limiti di utilizzazione (che son poi, mutatis mutandis, limiti a cui è soggetto ogni strumento di comunicazione, ad esempio i limiti fisici della carta e della scrittura a inchiostro che condizionano la comunicazione con tali strumenti).

    In effetti Facebook è tendenzialmente uno strumento di comunicazione “a bassa definizione”, e richiede un’alta partecipazione dell’utente per completare le informazioni non trasmesse .

    Di base offre uno schema di comunicazione davvero povero ed essenziale (che magari sarà utilizzato dall’utente ‘pigro’ e poco originale, quello stesso che magari scriverebbe alla fidanzata una lettera d’amore stereotipata, o farebbe con gli amici una conversazione insulsa e piena di luoghi comuni, o assillerebbe il prossimo appena conosciuto con profferte di inviti a cena e di altri passatempi non graditi), uno schema che però può essere arricchito e riempirsi di contenuti più originali ad opera di utenti esperti e non insipienti (e soprattutto disposti a esplorare e a misurarsi con le potenzialità del mezzo).

    La qualità della comunicazione dipenderà quindi, in definitiva, dalla disponibilità di partecipazione dell’utente, ossia di chi manda e di chi riceve la comunicazione, dalla sua personalità più o meno complessa e originale, oltre che, naturalmente, dal sua grado di cultura, dalla sua abilità informatica e dai mezzi tecnologici (ed anche economici) di cui può concretamente disporre.

    E d’altra parte deciderà l’utente di Facebook, pur nella gabbia strutturale imposta dal network, e con i vincoli tecnologici dello stesso, e in base alle abilità possedute, con quali parole, immagini, suoni, presentare sé stesso o magari un’associazione, e quali pensieri e contenuti veicolare nel network, e se e come rispondere alle sollecitazioni provenienti dal network medesimo o da qualche altra parte.

    Così, ad esempio, di fronte a un utente di Facebook che si presenta lapidariamente come fan de LA PATATA occorrerà verificare, analizzando tutto il suo profilo e gli amici, visitando compiutamente il suo spazio, se siamo in presenza di un vegetariano salutista entusiasta del nutriente tubero americano, o magari di un appassionato di musica che dichiara la sua passione per una band rock italiana con quel nome, o se è qualcun altro che vuol dirci qualcosa d’altro.

    Oppure, di fronte ad un’utente che dichiara tra i suoi prodotti preferiti “la punta di cioccolato” di un noto gelato, qualcuno particolarmente immaginoso potrebbe chiedersi se quell’utente stia davvero rivelando le sue preferenze gastronomiche o voglia significare chissà cos’altro; e magari essere indotto da questa curiosità, o magari dalla comune passione per la cioccolata e i gelati, ad esplorare lo spazio di quell’utente e a voler diventare suo amico di network.

    Mentre qualcun altro, più “impegnato” e votato alla salvezza del mondo, potrebbe scegliere di adempiere (al)la sua missione utilizzando il network per far conoscere i suoi commendevoli propositi e fare proseliti e mobilitarli al raggiungimento di tale nobile scopo, promuovendo in modo appropriato e consapevole raccolte di fondi e altre iniziative idonee.

    Trovo anche interessante un altro spunto contenuto nel racconto di Porcaro, che fa giustizia di un luogo comune troppo spesso abusato, cioè quello della campagna come paradiso terrestre dove scorrono fiume di latte e miele e frutti di ogni genere sorgono spontaneamente dalla terra per cadere senza sforzo nelle mani di allegre brigate di contadini che vivono in armonia con una natura sempre benigna e serena, e con sé stessi e col prossimo, legati da indissolubili vincoli di fratellanza e solidarietà.

    Questo mondo idilliaco si sgretola impietosamente appena vien fuori la concreta realtà del duro lavoro dei campi, con cui nessuno, evidentemente, si vuole cimentare (ed infatti, nella realtà, appena possibile viene delegato alle macchine e ad una manodopera straniera troppo spesso sottopagata), neppure l’ “amico” di Porcaro, pur misterioso abitatore della favolosa “Farmville”.

    Altresì Porcaro, evidenziando le pressanti e interessate richieste che riceve dagli “abitanti” di “Farmville” e la sua reazione o ‘contrattacco’, sembra metterci in guardia da quello che qualcuno ha chiamato “il principio di Tom Sawyer” ovvero la diabolica trappola del “Far voler fare”: talvolta quelli che vogliono fare, in realtà, vogliono far fare, agli altri, per un proprio tornaconto, un qualcosa che loro stessi non sono disposti a fare perché faticoso o noioso o che comunque torna ad esclusivo e preponderante loro vantaggio, presentandolo come qualcosa di vantaggioso per gli altri, mentre è vantaggioso solo per loro.

    Come Tom Sawyer, il giovinetto creato dallo scrittore statunitense Mark Twain e protagonista dell’omonimo libro di avventure, che non ha voglia di dipingere la staccionata – una corvée a cui è stato comandato dalla zia Polly la mattina di un assolato sabato d’estate, per punizione di essere rincasato tardi il giorno prima – e allora “convince” alcuni sprovveduti compagni di giochi a “divertirsi con lui” a dipingere la staccionata, presentandolo come un passatempo davvero divertente; persuade perfino ciascuno di loro a “pagarlo” con i loro modesti giocattoli per godere del ‘privilegio’ di partecipare al suo bel “gioco”. A metà pomeriggio di quel caldo sabato d’estate l’astuto monello, fresco e riposato, potrà consegnare alla zia la staccionata verniciata a puntino e avere una discreta quantità di piccoli giochi, cedutigli dagli amici, con cui si è trastullato tutto il tempo all’ombra di un albero, mentre i suoi “amici”, invece di giocare veramente, avranno lavorato per lui di sabato (cioè nel giorno, per di più estivo, di festa e divertimento) e si ritroveranno stanchi e e accaldati, tutti sporchi di vernice e “più poveri”.

    È come se prima ci venisse detto che sì, siamo tutti fratelli e sulla stessa barca e dobbiamo lavorare tutti insieme per non affondare durante la tempesta e preservare la barca e noi stessi, perché tutto ciò è bello, è utile, è necessario; e poi, passata la tempesta, accorgerci che la barca non è nostra ma di qualcuno altro, che per stare in quella barca noi non riceviamo quasi niente e anzi paghiamo un pedaggio, e che noi dobbiamo remare e lucidare la barca, mentre altri sono sul ponte a godersi il sole e scelgono la rotta e dove andare senza neppure chiedere il ns. parere, anzi, possiamo essere buttati fuori bordo se non eseguiamo ciò che ci viene comandato da loro, che una volta approdati, la vendita della barca che abbiamo contribuito a conservare viene decisa da uno solo (il proprietario) e arricchisce solo lui, e così via.

    Ne discende, ancora una volta, che la chiave di tutto è l’uomo e non la tecnologia in sé, o il web e quant’altro, o le merci, e neppure la natura; un uomo che sia cosciente di sé e del prossimo, degli interessi in gioco, dei propri limiti, e in funzione di sé, del prossimo, degli interessi di tutti, dei propri limiti (ad esempio, di controllo delle risorse naturali e dell’ambiente), sappia organizzare una vita e una società più giusta ed equa per tutti.■

    20-II-2010

    Massimo Simeone -Benevento

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