Il mio è un negozio indipendente… dall’inglese. Costi occulti dell’omologazione e costi artistici dell’esperienzialità

Ho qui inserito queste mie considerazioni per confrontarmi con gli amici di bMagazine, autori geniali del video “Benevento spicc inglisc”. Se non lo avete guardato, vi consiglio di farlo: è esilarante e ben realizzato. E’ godibile nella recitazione e nel montaggio, ma non ne condivido il messaggio, quando ironizza sulla scarsa conoscenza della lingua inglese nella nostra comunità territoriale.

Il mio è un negozio indipendente… dalla lingua inglese
Costi occulti dell’omologazione e costi artistici dell’indipendenza, della creatività e dell’esperienzialità.
E’ opportuno agevolare un nuovo modello di sviluppo o è più comodo individuare capri espiatori per non mettere in discussione un modello di sviluppo ormai superato?

di Alessio Masone

ingleseDi domenica, quando sono in un’altra città e trovo i negozi chiusi, la prima sensazione è quella di delusione. Poi, facendo mente locale, comprendo che sono nel posto giusto perché realizzo che quel luogo è autentico come la mia Benevento. Quel disagio di trovare tutti gli esercizi commerciali chiusi è un limite ma anche il segno inequivocabile che quella è una città autentica: non uno di quei “non luoghi” per turisti mordi e fuggi a cui vendere una rappresentazione di città, ma un luogo di chi la vive quotidianamente e non in quanto comparsa di un presepe vivente perpetuo.

Una volta ho visitato l’isola di Ischia. I ristoranti sulla costa, frequentati da frotte di turisti, proponevano tutti la stessa tipologia di menù: quello che il turista si aspettava da un posto di mare. Un menù con il testo anche in inglese, con pietanze di mare, tra l’altro, con molte specie non provenienti dal Tirreno, altro che pesce a miglio zero. Ebbene, qualche mese prima, nel 2005, a Pollenzo, durante un seminario per fiduciari di Slow Food, avevo conosciuto il fiduciario di Ischia che era anche titolare di un ristorante. Quindi, mi rivolsi alla sua osteria: frequentata prevalentemente dagli isolani e ubicata po’ più all’interno, lì ebbi la  consapevolezza che quella ischitana è, nella tradizione, prevalentemente una cucina di terra.

Per me, che conobbi solo per tre giorni l’isola, quel ristorante, per quanto scomodo da raggiungere (costo artistico, creativo ed esperienziale), fu un’occasione per conoscere un’Ischia poco stereotipata: grazie a quell’esperienza di fruizione culinaria responsabile, mi sentii meno stupido per aver impegnato alcuni giorni della mia vita in un luogo, in quanto turistico, più omologante della mia città. Infatti, se il viaggiare è consapevolezza, ritengo che i nostri concittadini si consapevolizzino anche restando a casa, visto che Benevento è più autentica delle principali mete turistiche.

Quando sono in un’altra città, cerco i luoghi quotidiani frequentati dalla gente del posto: ritrovarmi tra le mani un menù in più lingue è il segnale che sono in un quartiere per turisti dove, per assecondare le esigenze degli stranieri, probabilmente propongono cotoletta alla milanese, anche se si è in Puglia. Allora, mi sento come un napoletano che, a Venezia, si ritrova costretto ad ascoltare ’O sole mio cantato da gondolieri ormai abituati a vendere luoghi comuni agli stranieri.

Chi, oggi, visita il Sannio, assapora probabilmente quell’autenticità di cui godevano i viaggiatori del Grand tour nel permanere in un’Italia non abbastanza addomesticata per il turista. Il turista del nuovo secolo, sempre più consapevole, sta maturando la necessità di individuare mete che non siano da consumare una tantum, ma che consentano l’opportunità di interagire in modo più continuativo e quotidiano con la comunità territoriale che li ospita.

Ormai, è in decremento il turismo delle mete di massa, a tutto vantaggio del turismo minimale che fruisce della vivibilità quotidiana dei luoghi incontaminati dalla grande industria turistica e dalla cementificazione. Ciò è confermato dai numerosi campani della fascia costiera che sono sempre più numerosi nel nostro territorio, per scelta di vita, trasferendosi qui da noi, o per realizzare la seconda casa o per trascorrere semplicemente la domenica.

I nostri beni culturali, in senso assoluto, non potrebbero competere con quelli di Pompei, la Reggia di Caserta, Napoli e la costiera amalfitana, ma in più noi abbiamo da offrire agli abitanti della fascia costiera campana una vivibilità quotidiana che loro hanno perso, a causa di una estrema cementificazione del territorio, con quelle aree industriali, centri commerciali e raccordi autostradali che, cancellando allo sguardo il paesaggio agrario periurbano, tendono a trasformare ogni cittadina, con una propria identità, in una città senza fine e senza confine con le altre città.

Nonostante i nostri amministratori locali abbiano fatto di tutto per omologare la nostra città a un’area metropolitana (gli epicentri dell’attuale crisi economica e sociale), attrezzando orgogliosamente il territorio, come vuole il pensiero unico, con centri commerciali, cinema multiplex, fast food, i nostri concittadini mostrano un’istintiva resistenza identitaria, causando la chiusura di molti di quegli esercizi rappresentativi di un’economia e una cultura sovraterritoriali. Frutto di una scarsa omologazione di noi, abitanti di provincia, questi risultati comportano dei “costi artistici”: uno di essi potrebbe essere la scarsa conoscenza della lingua inglese.

Certo, per non scegliere e per prendere tutto quello che ci aggrada, vorremmo che Traianino fosse anche capace di parlare l’inglese, ma se così fosse non sarebbe più Traianino. Sarebbe come giocare una partita di calcio senza sudare, senza stancarsi (senza costi artistici ed esperienziali).

Ogni azione contiene costi occulti e costi artistici. Acquistare in modo funzionale un prodotto in un centro commerciale, ad esempio, comporta costi occulti che, non immediatamente riconoscibili nel costo monetario del prodotto, procurano, come effetto collaterale, la dispersione delle identità territoriali, della biodiversità culturale, della coesione sociale, dell’inclusione, della redistribuzione del reddito, della giustizia sociale e della tutela ambientale.

I costi artistici sono visibili ma necessari in quanto capaci di creatività, biodiversità, approccio esperienziale e non delegato. Chi di noi, da piccolo, non ha compilato un album di figurine? Certo, in termini monetari ed energetici, sarebbe stato più funzionale comprarlo già completo, come avviene per un libro, ma avremmo perso il piacere e l’esperienza del realizzarlo in prima persona. I doppioni avanzati delle figurine rappresentano un costo, non occulto, ma artistico, in quanto capace di agevolare la creatività, il cambiamento e un’attitudine alla cittadinanza non delegata.

La mia libreria non parla inglese e non è efficiente, come quei supermercati del libro, librerie di catena uguali in tutta Italia, ma, in quanto indipendente, è portatrice di una cultura che non si ottiene con i soldi, come comprando semplicemente un libro, ma con le scelte con cui si rinuncia ai costi occulti che sono dietro a ogni pratica e acquisto omologati e delegati: già il comprare responsabilmente un libro presso una libreria indipendente contribuisce a realizzare una cittadinanza artistica non delegata, partecipando in prima persona a una redistribuzione del reddito, a una biodiversità commerciale e ad una comunità territoriale coesa.

Il modello occidentale di sviluppo, quello ormai fallito, è quello della competizione (esclusione), del PIL (a danno della coesione sociale e di una felicità diffusa), della tecnologia (a danno dei mestieri identitari), della telematica (a danno dell’economia territoriale), dell’inglese (omologazione), del marketing (a danno dell’autodeterminazione nei consumi), della green economy (che in italiano significa che anche l’ambiente può essere asservito all’economia sovraterritoriale e finanziaria), delle infrastrutture (cementificazione e trasporti), delle grandi opere pubbliche (a danno del territorio e della redistribuzione del reddito), dei sistemi di scala (a danno delle piccole aziende locali), delle aree metropolitane (a danno della vivibilità quotidiana), dei centri commerciali (a favore delle banche e a danno dell’economia territoriale), della finanza (a danno dell’economia reale). Il modello occidentale, che con i suoi costi occulti ha generato le attuali emergenze occupazionali, sociali, psicologiche e ambientali, costituisce tuttora la strategia che accomuna i partiti di destra e di sinistra, di governo e di opposizione.

Ebbene, anche i giornali, nel momento che denunciano le inefficienze di una comunità territoriale su quegli aspetti, involontariamente concedono credibilità a quel modello di sviluppo occidentale che omologa e colonizza il mondo (anche linguisticamente) e che si nutre di centrali elettriche, elettrodotti, discariche, inceneritori, parchi eolici, trivellazioni petrolifere, autostrade, TAV e piattaforme logistiche.

E’ opportuno agevolare un nuovo modello di sviluppo o è più comodo individuare capri espiatori per non mettere in discussione un modello di sviluppo ormai superato?

Una risposta a Il mio è un negozio indipendente… dall’inglese. Costi occulti dell’omologazione e costi artistici dell’esperienzialità

  1. Stefania Iannella 17 gennaio 2013 a 8:25

    A proposito di librerie indipendenti, segnalo un articolo molto interessante, come anche i commenti sottostanti:
    http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/12/27/elogio-delle-piccole-librerie/455775/

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