“Winchester” di Angelo Imbriani – Finisterre viaggioracconti responsabili

Winchester
27 luglio 2009 – di Angelo Imbriani

winchester tavola rotondaCinquanta miglia verso sud, su una comoda strada, mi portano da Oxford a Winchester. Il canale radio “Classic event”, dopo giorni in cui mi ha propinato soltanto lagne depressive, accompagna l’ingresso nella nuova città a ritmo di valzer: Wienerblut. Si può persino perdonare lo speaker che pronuncia “uiner blat”! Winchester oggi è una tranquilla cittadina di provincia, ma un tempo fu gloriosa capitale del regno sassone del Wessex e potente sede arcivescovile. Con l’invasione normanna, Guglielmo il conquistatore pensò bene di crearsi un’altra capitale, Londra, per cercare di sottrarsi al potere condizionante dell’arcivescovo, ma non osò ingaggiare una lotta frontale e degradare Winchester. Così, si fece incoronare sia a Londra che a Winchester e l’Inghilterra per qualche tempo si trovò ad avere due centri! Londra dovette attendere un paio di secoli prima di acquisire il predominio incontrastato, approfittando di un rovinoso incendio che distrusse Winchester.

Parcheggio a nord del centro. Oggi il tempo alterna pioggia e sole, come spesso accade da queste parti. Ora è il momento dell’acqua. Decido di attendere la schiarita in una coffee house su Jewry street, che un tempo era la strada degli ebrei e delle loro botteghe. Il tempo di un mocha e fuori è tornato il sole. La  via più importante della città è High street, che però a un certo punto cambia il nome in Broadway. Il concetto è lo stesso. Ad un estremo, è rimasta una delle antiche porte, Westgate. E’ un bell’esempio di architettura militare medioevale e doveva vigilare sull’accesso occidentale alla città e al castello. Quando il castello fu abbattuto, divenne una prigione per i debitori insolventi. Sulle mura si vedono alcuni graffiti, lasciati dai malcapitati. Il castello fu distrutto per ordine di Cromwell, durante la guerra civile, dopo che la città si era schierata con lo Stuart. Cromwell non volle lasciare in piedi un tale simbolo del dispotismo monarchico, ma salvò dalla distruzione la Great Hall, la grande sala del castello, che poteva essere usata per le assemblee. Una bella lezione di democrazia! Del resto, persino nel suo esercito, il new model army, le decisioni importanti venivano discusse e votate e gli ufficiali erano eletti dalla truppa. Non conosco altri casi del genere, di eserciti organizzati democraticamente, se non la milizia anarchica e trotzkista durante la guerra civile spagnola, non a caso combattuta e infine smantellata dai comunisti filo-sovietici, ben prima che Franco prendesse il sopravvento. Vi è anche, in verità, l’episodio tragico e luminoso del comandante italiano di Cefalonia che, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e l’ordine dei tedeschi di arrendersi, convocò in assemblea i suoi uomini perché decidessero fra la resa ignominiosa e una disperata resistenza. Un episodio della lotta di Liberazione, a tutti gli effetti, che pure è stato dimenticato per svariati decenni e solo da qualche anno ha ricevuto la meritata notorietà. E come accade con Garibaldi, pare che gli italiani abbiano la tendenza a rimuovere le vicende più degne e autenticamente nobili della propria storia.

La Great Hall è una immensa sala a tre navate che avrebbe pure il suo fascino se fosse stata lasciata nella sua grandiosa nudità. E, invece, addossata ad una parete una colossale statua della regina Vittoria – del tutto fuori luogo – e proprio in mezzo alla sala e sulle pareti laterali una mostra di pittura etnica, ancor più dissonante con l’ambiente. Ho letto che qui si conserva la tavola di re Artù, che in realtà è un pregevole falso fabbricato circa sette secoli dopo, ma non riesco proprio a trovarla. Poi, proprio mentre mi chiedo sconcertato che cosa ci faccia un enorme bersaglio per il gioco delle freccette attaccato alla parete di fondo, sopra la statua della regina Vittoria, improvvisamente capisco: è quella la presunta tavola rotonda! Decisamente chi si occupa dell’allestimento della Great Hall meriterebbe il trattamento riservato da Totò al pittore astrattista nel film “Totò a Capri”! Mi avvicino alla tavola rotonda-bersaglio per le freccette. E’ dipinta a colori vivacissimi. Sono ritratti re Artù e i suoi cavalieri. Apprendo dall’opuscolo che questi dipinti non sono originari: furono ordinati da Enrico VIII e, guarda caso, re Artù ha le sembianze del Tudor da giovane, prima che il suo corpo divenisse spropositato per la pinguedine!

In questa sala, nel 1603, si svolse il processo a sir Walter Raleigh, il più famoso dei “corsari” inglesi, dopo Francis Drake. In realtà Raleigh era un aristocratico e fu anche scrittore e poeta, oltre che deputato di varie contee e ricco proprietario terriero. Si attribuisce a lui l’introduzione del tabacco in Gran Bretagna e pare che sia stato anche il primo a piantare patate in Irlanda, nelle sue tenute. Tabacco e patate li aveva portati dalle Americhe, naturalmente. Nel 1584 aveva anche cercato di fondare in America una colonia inglese, la prima, che volle chiamare “Virginia”, in onore di Elisabetta, la regina “vergine”, sua grande benefattrice. Elisabetta, tuttavia, non era molto disposta a rischiare capitali, propri o dello stato, per finanziare il progetto di Raleigh. La Virginia pareva una terra inospitale, per il territorio, il clima e la ferocia degli indigeni. Raleigh dovette autofinanziarsi e l’impresa fallì. Solo nel secolo successivo la colonizzazione ebbe successo, per iniziativa di una compagnia di commercio. Elisabetta preferiva utilizzare l’audace baronetto per azioni militari o di pirateria contro i porti e le navi spagnole. Imprese che evidentemente considerava ben più costruttive e lucrose. Raleigh, però, non si accontentava di impresucole militari, come la presa del porto di Cadice, o dell’assalto a qualche galeone carico di metalli preziosi. La sua sete di gloria pretendeva ben altro: se la regina gli chiedeva metalli preziosi, se voleva che combattesse i nemici spagnoli, allora avrebbe scoperto per lei la mitica città di El Dorado, costruita tutta in oro, quella città di cui gli spagnoli stessi avevano avuto notizia, ma che erano stati incapaci di rintracciare! In effetti, fu proprio Raleigh a far risorgere questa celebre leggenda. Nel 1594 entrò in possesso di una relazione spagnola che conteneva notizie sulla “perduta città dell’oro”. Si mise in viaggio, esplorò il territorio dell’attuale Guyana e, al ritornò in patria, pubblicò un resoconto delle sue scoperte – The discovery of Guyana – che descriveva le favolose ricchezze della regione. In realtà, pare che non avesse scovato nemmeno un misero giacimento d’oro. E di El Dorado nessuna traccia. Quando Elisabetta morì, nel 1603, il suo successore Giacomo I lo prese subito in antipatia: fu accusato di aver partecipato a un complotto contro il monarca e proprio per questa ragione fu processato qui, nella Great Hall di Winchester. Pare che riuscisse a difendersi in modo molto abile, scampando alla pena di morte. D’altra parte, l’accusa nei suoi confronti si basava solo su labili indizi. Dovette comunque restare 13 anni prigioniero nella Torre di Londra. Non era tipo da rinunciare alle grandi imprese e in carcere ne concepì una un po’ diversa dalle precedenti, ma non meno ambiziosa: scrivere una storia universale del mondo! Riuscì anche a terminare il primo volume, sulla storia greca e romana. Non doveva trattarsi comunque di una prigionia molto dura, visto che nello stesso periodo riuscì anche a generare un figlio! Nel 1616 Giacomo I lo fece improvvisamente liberare. Per quale ragione? Le casse dello stato piangevano e al re venne in mente che in fondo Raleigh poteva anche avere ragione sull’esistenza di quella fantastica città d’oro. Fu dunque scarcerato e ricevette l’incarico di mettersi subito alla ricerca di El Dorado. Durante la spedizione, i suoi uomini attaccarono l’avamposto spagnolo di Sao Tomè. Sotto Elisabetta, Raleigh avrebbe forse ricevuto l’ennesima onorificenza per questa impresa, ma l’epoca del conflitto anglo-spagnolo era ormai passata. L’ambasciatore spagnolo, sdegnato, chiese la testa di Raleigh. Giacomo I lo accontentò, perché non voleva guastare i rapporti con Madrid. E poi quel Raleigh si era rivelato un contaballe, lui e la sua El Dorado! Raleigh volle morire coraggiosamente come era indubbiamente vissuto: secondo i biografi le sue  ultime parole, quando vide il boia impugnare la mannaia, furono queste: “Colpisci, uomo, colpisci!”.

Winchester è famosa nel mondo per la sua splendida cattedrale, uno dei più importanti monumenti del Regno Unito. Molti della mia generazione la cattedrale di Winchester la conoscono anche senza averla mai vista, per la celebre canzone degli anni sessanta. Ci arrivo in cinque minuti, discendendo la collinetta del castello. Di fronte alla facciata credo che molti abbiano la medesima reazione: “Tutto qui? E’ questa la tanto celebrata cattedrale?” Ma l’esterno in tono minore (relativamente) non fa altro che accentuare lo stupore che ti investe non appena hai messo piede dentro. Le massicce colonne e le volte dell’originaria struttura romanica sono state mirabilmente ingentilite e slanciate dal gotico perpendicolare delle arcate ad ogiva. Questo rifacimento in stile gotico delle architetture originarie non fu dovuto, come in tanti altri casi, all’affermarsi di una nuova cultura e di una spiritualità un po’ diversa, ma ad un fattore ben più prosaico: la cattedrale, costruita inopportunamente su un terreno paludoso, stava sprofondando,  già era crollata la torre centrale! Della prima chiesa, costruita in epoca sassone, non resta invece molto, dato che gli invasori normanni la abbatterono per costruire l’attuale magnifica cattedrale, a partire dal 1079. Dopo questa prima e stupefacente visione di insieme, inizio a muovermi lungo la navata destra e, ben presto, dopo i primi quattro pilastri, noto alla parete la lapide funeraria della grande scrittrice Jane Austen. E’ piuttosto recente, in verità. L’iscrizione originaria si trova, infatti, a poca distanza, sul pavimento. Perché questa seconda lapide? Per capirlo, basta leggere con un poco di attenzione l’iscrizione su quella più antica. A giudicare da ciò che è scritto pare che il personaggio importante non fosse la scrittrice ma suo padre, il reverendo George Austen, esponente della piccola nobiltà della regione e pastore anglicano. E’ solo perché figlia di cotanto padre che Jane poté dunque avere l’onore di essere sepolta in cattedrale. Ma non è tutto. L’epitaffio della lapide originaria parla dello “straordinario talento” di Jane, ma non fa alcuna esplicita menzione della sua attività di scrittrice, che pure produsse “Orgoglio e pregiudizio” o “Persuasione”! Evidentemente, all’inizio dell’Ottocento non era ritenuto conveniente per una ragazza di buona famiglia, figlia per giunta di un pastore anglicano, dedicarsi alla letteratura! Peraltro, chissà se il reverendo George, se fosse stato ancora in vita al momento della dipartita di Jane, avrebbe acconsentito a questa singolare “dimenticanza”, che forse sarebbe il caso di definire censura e che fu invece voluta da uno dei fratelli della scrittrice, quello che si incaricò di comporre l’epitaffio. Il reverendo George, infatti, era stato uomo di larghe vedute e aveva incoraggiato le letture e le prove di scrittura di Jane, fin da quando era bambina, ed ella, del resto, doveva proprio a lui la sua prima educazione letteraria. Sta di fatto che oggigiorno il buon reverendo sarebbe completamente dimenticato se non fosse stato per la figlia: ecco la nemesi! La  seconda epigrafe si è dunque resa necessaria per non rendersi ridicoli di fronte al mondo: Jane Austen ha meritato questa sepoltura in cattedrale non per lo status del padre, ma perché è stata una delle maggiori scrittrici britanniche di ogni tempo! A Winchester, peraltro, ci è morta per caso. Da otto anni, infatti, viveva a Chawton, un minuscolo villaggio nell’East Hampshire. All’inizio del 1816 cominciò a star male. Continuò a lavorare, trascurando la sua salute, finché nel marzo del 1817, un fratello – un altro, non quello dell’epitaffio – riuscì a convincerla a trasferirsi a Winchester, per sottoporsi a delle cure mediche. Senza terapie mediche aveva tirato avanti per un anno e mezzo; affidata alla scienza… morì in due mesi! I luminari che la presero in cura non riuscirono nemmeno a fare una diagnosi del male da cui era afflitta: si è parlato di Morbo di Addison, di linfoma di Hodgkin, di tubercolosi bovina…

Le scenografie che vengono allestite nei monumenti di Winchester non cessano di stupirmi: poco oltre il transetto vi è una grande bacheca ove sono affissi dei fogli, come una sorta di volantini. Sono raccolti gli scritti dei cosiddetti magic carpet riders, che dovrebbe significare pressappoco “i viaggiatori del tappeto magico”! Si trattava di svolgere un componimento sulla seguente traccia: “Immagina che un bel giorno un tappeto magico ti trasporti in un luogo lontano e descrivi la tua giornata”. E così l’austera parete della superba cattedrale di Winchester ha subito l’oltraggio di questa esercitazione degna di una maestra deficiente! Ringrazio, commosso, l’autore di uno dei componimenti, un certo Max, che, con vero humour britannico, così parla della sua giornata sul tappeto magico – o meglio del tempo passato e sprecato nel tentativo di svolgere il compitino: “La vita di Max era di solito eccitante. Occasionalmente, però, egli si annoiava: questa fu una di quelle volte…”.

Ammiro gli splendidi stalli del Trecento e raggiungo il retrocoro, ove sono un gran numero di tombe. Sono alla ricerca, in base a ciò che leggo nell’opuscolo informativo, di un’altra stravaganza posta in questo magnifico sito. Ai piedi della tomba del cardinale di Beaufort, che sarebbe stato il responsabile – uno dei responsabili – della condanna al rogo di Giovanna d’Arco, dovrebbe trovarsi proprio la statua della pulzella d’Orleans, a turbare l’eterno riposo dell’alto prelato. In effetti c’è una statua di marmo che raffigura una giovane donna. Mi avvicino e scopro che si tratta però di Maria Maddalena! E’ forse una censura di stampo nazionalistico? E se la statua intendeva raffigurare davvero l’eroina francese a chi era venuto in mente di collocarla qui, in una delle più importanti cattedrali d’Inghilterra? E se invece si tratta effettivamente della Maddalena come è nata la leggenda che fosse Giovanna d’Arco? E perché la Maddalena, poi? Vuoi vedere che un giorno o l’altro verranno a raccontarci che dopo aver segretamente sposato Gesù ed essere fuggita in Provenza con il Sacro Graal, Maria Maddalena avrebbe poi attraversato la Manica? E che la guerra dei Cento Anni, magari, aveva come vera posta in gioco  la coppa del sangue di Cristo? E che Giovanna d’Arco aveva scoperto una qualche enigmatica mappa che conduceva al luogo dove la Maddalena aveva nascosto il Graal? Ora si spiega come mai qui a Winchester sia finita anche la tavola rotonda dei cavalieri di re Artù che ho visto poco fa! Prima che nella storia compaiano pure gli immancabili Templari mi lascio attrarre da qualcos’altro. Sta per cominciare il concerto delle 13 – il lunch-concert – come dice la locandina e forse vale la pena di ascoltarlo, anche per ritrovare il fascino del luogo. Non me ne pento, in effetti. Suona una bravissima violinista proveniente da Cambridge, accompagnata da una pianista. Sono entrambe giovanissime, a differenza del pubblico nel quale, a occhio e croce, il meno anziano sono io! I giovani saranno finiti chissà dove, sui loro tappeti magici!

Terminato il concerto, trovo l’entrata della vecchia biblioteca della cattedrale, dal transetto destro. Vi è esposta una preziosa Bibbia del XIII secolo, con splendide miniature. All’ingresso mi accoglie una anziana e cortesissima signora che mi fornisce esaurienti spiegazioni sulla Bibbia di Winchester e sulla storia della biblioteca. Parla lentamente e scandisce bene le parole. Mi spiega che le vetrate non sono originali, perché quelle medievali che erano riccamente decorate sono state distrutte durante la guerra civile. Immagina che io sia del tutto all’oscuro della storia del suo paese, come forse la maggior parte dei visitatori stranieri, e così mi “rivela” che l’Inghilterra per 11 anni fu una Repubblica e che il Parlamento fece decapitare il re Carlo I. Fa pure un gesto con la mano sul collo a mimare eloquentemente la testa mozzata! Noto una sorta di compiacimento in lei: pare che gli inglesi siano proprio fieri di aver tagliato la testa a un loro re! “Che cosa sarebbe la vita”, faceva dire Shakespeare a un suo personaggio, “se non potessimo camminare sui cadaveri dei re?”. Come è possibile che questi sentimenti anti-monarchici alberghino nell’animo della nazione che ha mantenuto l’istituzione reale, unica fra le grandi nazioni del mondo? In realtà, in quella guerra civile e negli undici anni di “Repubblica dei santi” gli inglesi hanno imparato a diffidare di ogni eccessivo entusiasmo politico o religioso e hanno consumato tutto il loro ardore rivoluzionario. Quando il male del dispotismo si è di nuovo presentato, gli anticorpi erano belli e formati e la seconda rivoluzione, la “Gloriosa rivoluzione senza sangue”, non fece altro che cacciare l’ultimo Stuart come si trattasse di espellere un corpo estraneo. Da quel momento l’Inghilterra divenne ufficialmente una monarchia liberale e costituzionale o, forse, una repubblica travestita da monarchia, laddove qualche altro paese, di cui non faccio il nome, sembra tuttora una monarchia travestita da repubblica.

Mentre termino la mia lunga visita alla cattedrale, mi accorgo che ho letto un paio di brochure,  ho consultato le mie solite guide turistiche – Routard, Lonely Planet, TCI – ho ascoltato anche le chiare ed esaurienti spiegazioni della signora della biblioteca ma nessuna di queste fonti di informazione ha citato un importante evento storico che pure so per certo che ebbe luogo qui dentro, il 25 luglio del 1554: il matrimonio fra Maria Tudor, detta la Sanguinaria, e Filippo II di Spagna, Quel matrimonio fu fortemente avversato allora dagli inglesi ed è oggi rimosso persino dalla memoria storica. Le perplessità e i timori che aveva suscitato la successione femminile al trono vennero allora esasperati dalla circostanza che la nuova regina si legasse al futuro re di Spagna, sovrano di una potenza rivale, strenuo sostenitore della Controriforma. Proprio la Controriforma era del resto il principale e forse l’unico elemento di unione nella coppia reale. La Tudor, all’epoca del matrimonio, aveva 38 anni, un’età che per una donna del XVI secolo significava quasi vecchiaia. Soprattutto, aveva ben undici anni più di Filippo. E Filippo confessò apertamente di ammirare la sua sposa, ma di non provare alcun “amore carnale” per lei. Pare che Maria si fosse invece invaghita del giovane principe spagnolo ammirando un suo ritratto, non quello celebre che gli fu fatto da Tiziano, ma un altro che oggi si trova pur esso al museo del Prado. In effetti nel dipinto il giovane Asburgo fa una magnifica figura, con un’aria da “bel tenebroso”: l’espressione fiera, che qualsiasi sovrano del tempo era chiamato ad assumere quando posava per un artista, si accompagna qui all’austerità e alla severità del contegno che gli appartenevano autenticamente, e lascia trapelare anche una sottile vena di malinconia. Maria aveva forse immaginato che dietro quel portamento si celasse un animo infiammato da passioni ardenti. Come si sbagliava! Filippo II – el rey prudente, come fu pure soprannominato – non nutriva alcun vero trasporto per le donne, che considerava, al massimo, una noiosa necessità, e nemmeno una moglie più giovane e attraente di Maria gli avrebbe acceso i sensi. Non che fosse dell’altra sponda, beninteso! E nemmeno pare che abbia mai lamentato ciò che oggi è “politicamente corretto” definire “disfunzione erettile”. Semplicemente, fra i suoi numerosi interessi mondani – giardinaggio, pittura, collezionismo di ogni genere di oggetti, pesca e caccia, alchimia e scienze… – non era compreso l’interesse per le donne. Quando i due si sposarono, proprio in questa cattedrale, si erano conosciuti di persona soltanto da due giorni. Filippo restò poi un anno in Inghilterra e non fu semplicemente un principe consorte, ma un re a tutti gli effetti; ma quando il suo grande genitore, l’imperatore Carlo V, decise di ritirarsi a vita privata, lasciandogli la corona di Spagna e i domini italiani, americani e fiamminghi, Filippo ritornò a Madrid, tutt’altro che a malincuore. Maria, nel frattempo, aveva avuto soltanto due gravidanze-fantasma. Filippo II tornò dalla moglie e in Inghilterra soltanto nel marzo del 1557, dopo 19 mesi di assenza. Forse per un ultimo tentativo di concepimento. O, più probabilmente, perché da tempo insisteva affinché l’Inghilterra si schierasse al fianco della Spagna nel conflitto contro la Francia e sperava con la sua presenza a Londra di abbattere le formidabili resistenze che si opponevano al progetto. Così fu, difatti. Ma in quella circostanza gli inglesi, che hanno indubbiamente combattuto con valore e quasi sempre con successo tutte le loro guerre, si comportarono assai male, forse perché era una guerra che proprio non li convinceva. L’unico risultato, del tutto negativo, fu la perdita del porto di Calais, sull’altra sponda della Manica, che era tutto ciò che era rimasto dei domini inglesi in suolo francese, un tempo vastissimi. A luglio Filippo lasciò definitivamente l’Inghilterra. Maria morì circa un anno e mezzo dopo, senza più rivedere il consorte. Le sue presunte gravidanze erano state solo il sintomo di un cancro alle ovaie. In modo un po’ melodrammatico, aveva confidato ai suoi dignitari che se alla sua morte le avessero aperto il petto avrebbero trovato due spine conficcate nel cuore, una di nome “Filippo” e l’altra chiamata “Calais”. Per una singolare coincidenza poche ore dopo moriva anche il cardinale Pole la “colomba” che era divenuta “falco” in vecchiaia e che, pur animato da una sua nobile visione religiosa, aveva di fatto collaborato con l’opera repressiva di Maria la Sanguinaria.

E’ ormai pomeriggio e posso raggiungere il mio nuovo bed and breakfast. Devo ritornare sulla strada che ho fatto stamattina, arrivando da Oxford, perché si trova in quella direzione, appena fuori città. Anche stavolta la scelta è stata felicissima: è un graziosissimo, piccolo cottage in una magnifica zona verde. La nuova landlady è affabile come quella di Bourton: niente a che vedere con la post-hippy di Oxford! A proposito, dimenticavo: stamattina mentre imburravo una fetta di pane nero si è avvicinata, la post-hippy, domandandomi se mi piaceva il pane scuro. Le ho risposto di sì, stupito dalla inattesa cortesia e mi sono persino spinto ad immaginare che volesse chiedermi se ne gradivo dell’altro. Cosa che tra l’altro avrebbe reso un po’ meno tristemente misera la colazione continentale. Ma che! Mi ha semplicemente detto che lei invece il pane nero lo odia e mi ha girato le spalle! Anche per questo, sento quasi campane che squillano a festa quando quest’altra landlady si preoccupa invece di chiedermi se all’indomani mattina gradisco un full english breakfast. “Of course!”, le rispondo!

La camera è al primo piano: ha un letto ampio e soffice, moquette, un mobiletto anticato, il solito necessaire per il té e soprattutto un’ampia vetrata che dà sul giardino sottostante e sull’ameno, verdissimo paesaggio delle colline intorno alla città.

Torno in città, più tardi, per seguire le orme di Keats, il grande poeta romantico. No, non è che intenda cimentarmi nella poesia. Ricordo un pensiero di Benedetto Croce: superati i vent’anni di età ci sono solo due categorie di persone che continuano a scrivere poesie: i veri poeti, che sono rarissimi, e gli imbecilli, che sono assai più numerosi. Chi non si può attribuire una capacità di giudizio estetico degna del buon don Benedetto dovrebbe quindi considerare quantomeno i termini squisitamente matematici o statistici del suo monito: dopo i vent’anni, aspirando a salire al cielo dei poeti vi sono altissime probabilità di precipitare nell’altra e più nutrita schiera! Quando mi riferivo alle orme di Keats, non parlavo dunque con linguaggio figurato: intendevo dire che mi accingo a ripetere una passeggiata che egli qui fece, in uno scenario davvero bucolico, e che pare gli abbia ispirato l’ode “Autunno”. Anche Keats era venuto a Winchester, tra l’estate e l’autunno del 1819, per curarsi la salute. Tutti abbiamo ben chiaro nella nostra mente lo stereotipo del “poeta romantico”, ma tendiamo a pensare che la realtà sia più prosaica, che certi tratti e certe esperienze appartengano più che altro alla letteratura, che nella vita reale siano il frutto di atteggiamenti un po’ studiati e artificiosi; ebbene, è impressionante verificare come Keats incarni davvero ogni caratteristica dello stereotipo: quando arriva a Winchester, ed ha già una ricca e importante produzione poetica al suo attivo, ha solo 23 anni ed è ammalato di tubercolosi. Ne morirà giovanissimo, due anni dopo. Le sue condizioni finanziarie sono disastrose: ha abbandonato una promettente carriera di medico, per dedicarsi solo alla poesia; attraversa periodi di profonda depressione; fa uso di oppio, in piccole quantità; ha un grande amore per una fanciulla, Fanny Brawne, che non può sposare per le sue critiche condizioni economiche e per l’ostilità della madre di lei. Si fidanzano segretamente. Solo molti anni dopo la morte di Keats saranno scoperte e pubblicate le sue lettere all’amata e si capirà che la “Stella luminosa” di cui parla nei suoi componimenti era una donna reale. “Io rimasi stupito”, scrive il poeta in una di queste lettere a Fanny, “quando appresi che gli uomini possono morire da martiri per la religione. Io rabbrividivo pensando a ciò, ma ora non più: io potrei essere martirizzato per la mia religione – l’Amore è la mia religione. Io potrei morire per questo. Io potrei morire per te”. Dopo quell’autunno a Winchester, che migliorò almeno temporaneamente le condizioni fisiche e spirituali di Keats, la vita concesse ai due amanti pochi altri mesi: nell’autunno del 1820 le continue emorragie segnalarono un deciso aggravamento della malattia. I medici gli consigliarono di trasferirsi in un paese più caldo e Keats partì per l’Italia. Qui un luminare, inglese, che doveva essere collega di quegli altri medici che avevano “curato” la povera Jane Austen, giunse alla conclusione che l’origine della malattia del poeta fosse negli “strapazzi mentali” e che per fermare le emorragie occorresse ridurre il flusso di sangue verso lo stomaco con una drastica dieta: un’acciuga su un pezzo di pane e nient’altro! Keats fu inoltre sottoposto agli immancabili salassi. Questo trattamento, come era prevedibile, annichilì in breve tempo le già deboli forze del poeta che si spense nel giro di un paio di mesi. Come nel caso di Jane Austen, quattro anni prima, le terapie mediche ne accelerarono il trapasso. Certo, si può anche pensare che in due secoli la medicina ne abbia fatti di progressi, ma io tendo comunque a credere che, finché è possibile, sia buona norma igienica stare alla larga dai medici! Fanny Browne per ben sei anni vestì di nero, in segno di lutto, tenne i capelli cortissimi e portò sempre al dito l’anello che Keats le aveva regalato. Si risolse a prendere marito solo a 12 anni dalla morte del poeta.

Il sentiero della passeggiata di Keats incomincia a pochi passi dalla cattedrale, ma ben presto si immerge in una campagna lussureggiante. A destra un ruscelletto che ha tutte le tonalità del verde, a sinistra il fiume Itchen. Piante acquatiche, strani fiori, le immancabili anatre…Sta calando la sera, il tempo si è di nuovo rannuvolato e soffia una brezza piuttosto fresca. L’autunno che ispirò Keats non c’è ancora, ma la stagione gli corre incontro e sempre più si allontana dalla primavera: “Where are the Songs of spring? Ay, where are they?”. Il sentiero giunge al vecchio ospizio di St. Cross, che è addirittura la più vecchia istituzione caritatevole d’Inghilterra. Fu fondato da un arcivescovo, Henry de Blois, nipote di Guglielmo il Conquistatore, nel 1133. Ancora oggi ospita 25 anziani (in passato erano oltre 100), i cosiddetti “Fratelli”. Per trovare accoglienza e divenire un “Fratello” occorrono i seguenti requisiti: essere maschi, single, vedovi o divorziati, preferibilmente poveri e con un’età superiore ai sessant’anni. In origine veniva prescelto chi a malapena si reggeva in piedi – come si legge nel documento che istituisce l’ospizio – ma oggi pare che si prescinda da questa condizione per cui concludo che ho proprio tutti i requisiti tranne l’età: che peccato, era il luogo ideale per ritirarmi dal mondo! Dovrò aspettare una dozzina di anni! Posso solo usufruire di una ospitalità simbolica, una antichissima tradizione che è tuttora conservata… mi dirigo verso l’ingresso. Dovrei trovare una guardiola, bussare, vedere affacciarsi il custode e chiedere il dole, l’obolo del viandante! Un tempo si fornivano pasti ai poveri a cui non era possibile dare alloggio. Oggi non accade più, ma si è conservato l’uso del Wayfarer’s dole – l’obolo del viandante, appunto. Consiste in un pezzo di pane e in un sorso di birra e viene offerto a chiunque lo chieda. Il problema è che, invece della guardiola ho trovato un negozietto di souvenir! Mi aggiro perplesso, fingendo di dare uno sguardo alla merce esposta. C’è una coppia di mezza età, in tuta da jogging. Si sono avvicinati alla signora del negozio e mi pare che parlino proprio del dole! A un tratto, la signora estrae da sotto il bancone un vassoio con dei pezzettini di pane. Sono davvero minuscoli, tipo quelli che si usano per la Santa Cena nelle chiese protestanti. Ma ecco che arriva anche la birra! Viene versata in due piccoli boccali di ceramica, con una croce nera di Gerusalemme dipinta sul bordo. Mi faccio coraggio e mi presento anche io al bancone, perché ho capito che in realtà le funzioni del guardiano che mi aspettavo di trovare le svolge questa signora, che non è nemmeno tanto male peraltro. Non ho bisogno neanche di chiedere: ha capito che sono lì per il dole e non per comprare un portachiavi con la cattedrale di Winchester impressa sopra! La birra sarà un terzo di pinta, a occhio e croce, ma è davvero buona e rende meno faticoso il ritorno in città. Qualche sorso di birra, l’ho scoperto in Germania, stimola potentemente l’appetito, anche se qualche ora prima si è mangiato uno stinco di maiale! Non è certo questo il caso: il mio lunch è stato più che frugale, come sempre, e stamane, per giunta, non ho goduto di un breakfast all’inglese, ma della misera colazione continentale della post-hippy! Se a ciò si aggiungono la passeggiata sul sentiero di Keats e il fresco della sera si può immaginare quali pressanti rivendicazioni siano avanzate dal mio stomaco! Mi dirigo, quindi, verso quello che si presenta come il miglior posto dove mangiare, qui a Winchester: il Wykeham arms. Chi ha buona memoria potrebbe ricordare che Wykeham era il nome del vescovo che fondò il New college di Oxford e che costui era per l’appunto vescovo di Winchester. Non è che il locale sia stato fondato dal prelato nel XIV secolo: risale “solo” al Settecento. Sua eminenza, però, ha un ruolo importante anche nella storia di Winchester, perché anche qui fondò una scuola importante, la prima scuola privata d’Inghilterra, destinata alla formazione di studenti di umili origini ma di talento, che avrebbero poi potuto concludere la loro formazione proprio al New college di Oxford. In sostanza, Wykeham realizzò un formidabile progetto educativo e concepì, come si direbbe oggi con insopportabile espressione, una vera e propria “sinergia” fra il college di Winchester e l’università di Oxford. Ancora oggi, il College of Winchester è una delle scuole superiori più prestigiose di tutta la Gran Bretagna. Vi passo davanti, ammirandone, almeno dall’esterno, la sobria ma elegante architettura. Una porta carraia, con arcata ogivale, dominata da una torretta, conduce al cortile interno, al quale purtroppo non si può accedere. Una nicchia nella torretta, ospita una statua, che credo raffiguri proprio il fondatore. Costeggio il lungo edificio in pietra del college, con una serie di trifore e altre piccole finestrelle chiuse da sbarre, più in alto. Proprio accanto, si trova la casa dove morì Jane Austen, nel 1817. Ancora pochi passi e sono finalmente davanti al mio ristorante, che è accanto ad un’altra porta medioevale, la Kingsgate, in un angolo tranquillo e oltremodo suggestivo della città. La porta sembra nello stesso stile dell’edificio del college e anche la pietra pare identica. Il palazzetto che ospita il Wykeham arms è invece più recente, di stile ed epoca georgiana, ammesso che io incominci a capire qualcosa dell’architettura britannica.. Oggi è anche un albergo di charme, con mobili antichi e letti a baldacchino, ma in origine era una osteria con annesso bordello! Anche a quei tempi, comunque, doveva avere la sua buona fama, se è vero, come si dice, che l’ammiraglio Nelson fu ospite per una notte. La storia non chiarisce se egli abbia apprezzato la cucina o quell’altro tipo di offerta a cui si accennava. Pare che anche Churchill sia passato di qui. Ai suoi tempi, il Wykeham arms era ormai diventato quel rispettabilissimo albergo-ristorante che è ancora oggi, per cui si può presumere che Sir Winston sia stato attirato solo dalla ottima reputazione gastronomica. Proprio sulla parete accanto al tavolo ove mi hanno fatto accomodare è affissa una foto delle solenni esequie di stato di Churchill, nel gennaio del 1965. Accanto c’è un documento ingiallito: è un pass per presenziare alla cerimonia nella cattedrale di Saint Paul, indirizzato al proprietario del Wykeham arms. Mentre aspetto il mio piatto posso ammirare anche l’immensa collezione di boccali da birra: dovrebbero essere circa 4000, di ogni manifattura, e sono disseminati ovunque, su mobili, scaffali, mensole, e soprattutto pendono dal soffitto. Vi è poi un’altra collezione, più ridotta quanto al numero di esemplari, ma ben più singolare: una serie di bastoni che in un tempo non lontano si utilizzavano per le punizioni corporali a scuola,  nello stesso vicino college.

Gli avventori che si affollano intorno al bancone non sono, purtroppo, i classici tipi da pub: per le movenze e le tonalità e specie per l’abbigliamento li classificherei nel genere “barcaioli” (ossia possessori di yacht). Dato, però, che non siamo a Vulcano o Porto Cervo mi risolvo ad inserirli nella più vasta e generica categoria degli ‘mbrellini. L’origine di questo appellativo, che da ragazzi usavamo molto e sempre con un accento di sarcastica riprovazione, è rimasta sempre oscura. ‘Mbrellini erano quei giovanotti sfaccendati che vestivano solo capi firmati, avevano capelli impomatati e tagliati corti, non si  sognavano di farsi crescere la barba. “Passeggiavano” per il centro città con i loro fuoristrada, antesignani degli attuali Suv. Non avevano alcuna idea politica. Anzi, non avevano alcuna idea che potesse definirsi tale. Frequentavano discoteche e locali “esclusivi”. Attendevano, senza fretta, di ricoprire il ruolo sociale e professionale a cui erano destinati dalle loro influenti famiglie. Noi li consideravamo ridicoli più che pericolosi. Pensavamo, ed eravamo in errore, che fossero una specie in via di estinzione. Al contrario, ben presto sarebbero venuti fuori dai rifugi ove erano relegati nel mondo giovanile di quegli anni, che era dominato da ben altri tipi antropologici, per invadere il nostro mondo e sovvertirlo, o meglio inquinarlo. Oggi dobbiamo amaramente riconoscere che la specie in via di estinzione eravamo piuttosto noi altri. Ma, a quel tempo, che il mondo avrebbe preso la direzione che poi ha preso, chi lo immaginava? Avevamo un punto di incontro che distava solo poche decine di metri da quello degli ‘mbrellini, ma nessun tipo di scambio o di confronto era immaginabile, neanche nelle sere più affollate quando i due rispettivi gruppi finivano fisicamente l’uno accanto all’altro. Tra noi era difficile persino indossare un capo firmato sportivo e solo relativamente costoso, tipo una polo Lacoste. I miei compagni di scuola me ne regalarono una per i 18 anni (che festeggiai in pizzeria, allora non si usavano i ricevimenti tipo matrimonio, completi di inviti e bomboniere, che si fanno oggi). La indossavo a volte, perché era del mio colore preferito e, soprattutto, perché aveva un valore affettivo. E non mi risolsi, per sfuggire alla pena che ora dirò, ad usare il patetico stratagemma che altri, nella mia stessa condizione di destinatari di un regalo simile, avevano usato: strappare il coccodrillo di stoffa! E così’, incontrando qualche membro particolarmente deficiente del mio gruppo allargato di amici, non mi restava che sottostare, con rassegnazione, alla pena; la quale consisteva nel dover sopportare che costui si avvicinasse e chiudesse le dita sul simbolo della lacoste, pizzicando violentemente la stoffa e la carne sottostante, come a simulare il morso del suddetto coccodrillo. L’abbigliamento caratterizzava in modo intransigente l’identità di un gruppo giovanile in quegli anni e le identità erano legate imprescindibilmente agli orientamenti politici. Recentemente, un collega ha creduto di riconoscermi in una foto di quell’epoca. Ma ha preso un abbaglio. Il tipo in questione, infatti, indossava occhiali da sole, marca ray-bain e quel tipo di occhiali, allora, li portavano solo i piloti americani e i fascisti. Anzi, per essere precisi, i “fascisti di merda”, perché allora si usavano questi appellativi tipo poemi omerici – Ulisse dalle mille astuzie, Atena dagli occhi lucenti, Aiace possente nel grido di guerra – per cui non si diceva mai che uno era un fascista e basta. Era sempre fascista e qualche altra cosa. Di solito, “fascista di merda”. O, al limite, “fascista, bigotto e reazionario”. E così un intellettuale o era un “intellettuale di sinistra” o era un “intellettuale del cazzo”, tertium non datur, ed era facilissimo, peraltro, che qualcuno passasse dalla prima alla seconda categoria. E’ inutile dire che sono categorie totalmente inservibili nel mondo di oggi e ne paghiamo il prezzo, sprovvisti come siamo di strumenti di analisi adeguati a capire la realtà odierna, specie quella del mondo giovanile. Sempre che ci sia davvero qualcosa da capire. In ogni caso gli errori di interpretazione in chi si è formato in quegli anni sono frequentissimi. Come quello di stasera: pensavo che quei tipi al bancone del pub fossero ‘mbrellini, per le movenze e il vestiario, e invece sono semplicemente, naturalmente… gay! Il primo dubbio mi è venuto quando ho sentito distintamente un “Darling!”, senza che ci fosse alcuna donna nei paraggi. Il dubbio è divenuto una solida ipotesi quando è partito da uno di loro un “Honey!”, rivolto al ragazzo del bar. L’ipotesi ha superato l’istantia crucis quando ho notato che il suddetto, mentre apostrofava così vezzosamente il barista, stringeva la mano dell’amico al suo fianco.

Nel frattempo, arriva la cena, e mi rinfranco pensando che almeno le mie categorie di analisi gastronomica non sono invecchiate, oppure sono riuscito ad aggiornarle. In fondo, già allora un mio amico aveva profetizzato qualcosa del genere, dopo aver assistito in impassibile silenzio a una delle usuali e interminabili discussioni fra me ed altri amici. Erano dibattiti che iniziavano verso le 22, le 23, quando la notte sommergeva le frivolezze del mondo, e duravano ore ed ore. Ognuno, con ingenuità e audacia, proponeva una sua visione della realtà, una Weltanschauung, continuamente riadattata alla luce delle ultime suggestioni ricevute dalla lettura, dallo studio e da quel poco di esperienza del mondo che ci capitava di avere. Immancabilmente, qualcuno di noi era più convincente degli altri, sicché la sua Weltanschauung si imponeva, almeno per quella sera. Ma sempre con il contributo, ossia con le correzioni e le integrazioni proposte dagli altri. Certo, vi erano anche dei veri scontri polemici, nei quali ognuno restava sulla sua posizione, ma accadeva di rado, perché il terreno comune era ampio e solido. La visione del mondo di quella sera doveva essere oltremodo pessimistica, come del resto capitava spesso. E come capitava sempre avevamo avuto l’impudenza di costruirla su frammenti di filosofia, di storia, di psicologia, di fisica, di antropologia e di qualsiasi altra disciplina avessimo un poco studiato. Così il nostro amico, che era rimasto, come dicevo, in assoluto silenzio, tanto che io avevo finanche creduto che si fosse assopito, mostrò di aver invece seguito tutto lo sconsolato discorso sui fallimenti politici, sulle irrimediabili e congenite tare del nostro paese, sulla tristissima condizione dell’uomo nel cosmo, e di averne anche colto l’intima e profonda essenza, giacché lo concluse con questa sentenza definitiva: “In sostanza, ci so’ rimasti sulo i maccaruni!”

Carlin Petrini in quel momento non aveva ancora fondato lo slow food e probabilmente era ancora immerso nel “tradizionale” impegno politico. Il mio amico, invece, aveva già capito tutto. “Il problema dei filosofi è che hanno cercato di interpretare il mondo mentre si tratta di trasformarlo!”, aveva detto quel signore di Treviri. D’accordo, ma il secondo problema dei filosofi è che hanno pensato di fare la rivoluzione nelle piazze e nelle fabbriche, mentre il mondo si cambia nella “terra madre”, nelle botteghe alimentari, nel sacchetto della spesa, in cucina, e, infine, a tavola!

I maccaruni del mio amico, nel frattempo, si sono andati un po’ raffinando: questa sera, qui al Wykeham arms di Winchester,  si traducono in salmone affumicato su crostino di pane, uova in camicia e salsa hollandaise. Grande equilibrio di sapori e ottime materie prime. Ma era solo lo starter – l’entreé dei francesi. Dopo, arriva una lasagna ai funghi selvatici (non meglio identificati, ma sopravvivrò) con panna, pomodorini secchi e insalata di spinacino. Una delizia. Un piatto di ispirazione mediterranea, si potrebbe pensare, ma in realtà le lasagne fanno parte anche della tradizione gastronomica britannica.

Attraverso la piazza della cattedrale che ora è deserta. Soltanto una coppia di fidanzati. Nessun gruppo di giovani intento a discutere, come facevamo noi allora, nelle sere d’estate (e pure d’inverno). E’ vero, non sono più quegli “anni fatati di miti cantati e di contestazioni”; non sono più quei “giorni passati a discutere e a tessere le belle illusioni”. E’ vero: è passata la primavera della nostra vita e l’estate corre a gran passi verso l’autunno. “Where are the Songs of spring? Ay, where are they?” “Dove sono i canti della primavera? Ah, dove sono?” “Think not of them, thou hast thy music too…” “Non pensarci, o Autunno, hai pure tu la tua musica…”

(Finisterre raccontoviaggi responsabili – “Winchester” di Angelo Imbriani)

Una risposta a “Winchester” di Angelo Imbriani – Finisterre viaggioracconti responsabili

  1. Alessio Masone 3 febbraio 2013 a 21:06

    Non sono un appassionato di viaggi.
    Eppure, il lungo racconto, con cui Angelo Imbriani ferma le suggestioni provate visitando Winchester, tramite le brillanti digressioni mi ha fatto molto riflettere.

    Sembrava di passeggiare effettivamente in un luogo carico di umanità. E, camminando, ogni opera d’arte che s’incontrava diventava occasione per confrontarsi con episodi storici o per innescare riflessioni sul senso delle cose.

    Ho immaginato il piacere di quei filosofi greci che approfondivano la conoscenza della vita passeggiando in un contesto reale e quotidiano, fuori da un asettico luogo canonico.

    Trovo che la rubrica “Finisterre, viaggioracconti responsabili” sia coerentemente connessa al progetto di Art’Empori: il raccontare un viaggio, trasformandolo in scrittura per comunicarlo ad altri, comporta la consapevolizzazione e la soggettivazione di un’esperienza che altrimenti rischia di restare solo emozione subita e delegata.

    Alessio Masone

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