Avere a cuore il mondo. Il libro di Carmela Longo: dalla psicologia individuale al bene comune

avere a cuore il mondo carmela longoPrendersi cura di sé, degli altri, del bene comune.

La Psicologia è chiamata oggi a una sfida epocale, che chiede di uscire fuori da una nicchia elitaria e di  rendere la professione di psicologo più visibile, apprezzata, socialmente considerata e soprattutto utile in questo terzo millennio:  è  questo il progetto-sogno che con tanti colleghi dell’Ordine degli Psicologi Campani  stiamo coltivando. Lo spirito della colleganza deve essere riscoperto soprattutto nel nostro Paese, per fare in modo che  gli idealisti non si chiudano nelle quattro pareti del proprio studio o all’interno di un servizio.  Chiudersi equivale a dare spazio agli opportunisti, che non temono violenza e aggressività,  lasciando che occupino  lo spazio lasciato vuoto soprattutto nella cosa pubblica. Nella nostra disciplina dovremmo sentirci tutti in dovere, indistintamente, di essere psicologi della responsabilità sociale[1].

E questo è lo stimolo  principale di questo libro: raccogliere le energie belle e positive dei tanti  attivisti nel mondo dell’associazionismo, del volontariato e nel mondo professionale che si incontrano fattivamente ogni giorno. Avere a cuore il mondo comune si può declinare  così nella capacità di mettere in rete il pensiero forte e creativo di una professione bellissima e di quelli che la praticano, con competenza, passione, rispetto. La promozione della giustizia sociale, la  cultura dell’equità e della pacifica convivenza tra tutte le persone, non è un’utopia, e si può senz’altro lavorare insieme per costruire un mondo migliore, utilizzando le conoscenze psicologiche, pedagogiche e psicosociali.

Presentazione di Raffaele Felaco, associazione psicologi per la responsabilità sociale

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Prefazione dell’autrice

Questo libro nasce dal desiderio di condividere alcuni dei punti fermi che ritengo fondamentali come cittadina di una comunità locale e globale, e come psicologa psicoterapeuta. Il qui ed ora del nostro periodo storico è drammatico per le scelte e le omissioni scellerate che come singoli e come comunità facciamo,   spingendo il pianeta al collasso e i legami sociali alla disgregazione, nel quadro di un modello di sviluppo semplicemente folle, come è quello occidentale.

Le considerazioni vogliono essere, dunque, trasversali, e raccogliere alcuni dei possibili fattori comuni che ci legano e che dovrebbero guidare i nostri passi, come cittadini e come persone che lavorano nei campi più disparati, e a maggior ragione come professionisti nella relazione d’aiuto.

Lo snodo potrebbe avvenire grazie all’impegno comune lungo tre assi fondamentali: ecologia economica,  ecologia delle relazioni ed ecologia ambientale, nell’ottica di quella che gli indiani d’America praticavano già da un pezzo, cioè l’ecologia profonda.

Mi auguro che queste considerazioni  risultino  utili anche a coloro che, nel mondo del volontariato e dell’impegno civico, possono beneficiare dei numerosi input che offre la Psicologia, specialmente nel campo della risoluzione dei conflitti e nella costruzione di relazioni nutritive e di scambio significativo. Allo stesso modo, spero  solleciti gli operatori che a vario titolo rientrano nell’area psicologica, a espandere la loro ottica, affinché sia finalizzata ad un bene più grande, che vada oltre il singolo o il gruppo, per abbracciare una  azione olistica del prendersi cura di sé, degli altri e della Terra.

Introduzione dell’autrice

Nel mio percorso ho  maturato la consapevolezza  che  la Psicologia, come tutte le discipline, debba dare forte il suo contributo per costruire un mondo migliore. I sentieri che si sono succeduti, di cui alcuni fortuiti, subito dopo la laurea, mi hanno portato a credere ogni giorno di più in questo impegno, e ad assecondare anche le variazioni, i moti che non dipendevano da me. Quando nel 1993 entrai di ruolo nel servizio tossicodipendenze[1] ebbi una sorta di rigetto. Era un campo che non mi era mai interessato, i primi periodi ho somatizzato molto e mi facevano letteralmente male gli incavi delle braccia. Ho avuto però la fortuna di lavorare in un posto dove i ragazzi, vecchi e nuovi alle droghe, avevano modo di esprimere a fondo le loro emozioni e lavorare sui propri vissuti. Ricordo ancora il mio primo cerchio con loro: in mezzo a noi, al centro, una pentola col coperchio sopra; chi se la sentiva, poteva dire quello che c’era nella pentola. Tanti occhi lucidi, qualcuno non ce la faceva e si alzava mandando al diavolo tutti. Io pensavo a quello che c’era per me, nella pentola: le lacrime che mi venivano erano mie, e quello era solo un assaggio della nostra comune umanità. La mia opposizione interna al lavoro nel Ser.T., dunque, è durata poco: ogni giorno era per me un’occasione per conoscermi meglio, per lavorare sui dogmi ancora così presenti in me, tra cui quello della gratitudine: “come”, mi chiedevo, “qua neanche un grazie, neanche un riconoscimento?!”. Dopo anni in uno studio privato, abituata ormai a un ruolo sentito e riconosciuto  come forte, dovevo confrontarmi con squalifiche e irriverenti mancanze. Una bella lezione di misura.

Lavoro ancora nelle dipendenze patologiche,  amo il mio lavoro, mi intriga e mi appassiona man mano che prendo contatto con la mia umanità, e questo mi porta a stare più vicina agli altri, talvolta con rabbia e con senso di impotenza, ma sempre presente, qui ed ora.

In più da qualche anno si è aggiunta, altrettanto fortunosamente, la via del clown, e con questa un grande interesse per tutti gli aspetti legati alla psicologia delle emergenze e delle catastrofi. Il mio occhio del cuore è volto, soprattutto, alla ripresa dopo le catastrofi interiori, nonostante e oltre quel senso di disfacimento interno che ci coglie, tutti, in momenti particolarmente drammatici e intollerabili con le nostre sole forze: “Questa capacità di amare la conserviamo dentro di noi acuta e prepotente, ma nascosta e sepolta sotto le macerie[2]”.

Determinante, fortissima e pregnante è stata per me l’esperienza in Abruzzo come clown nelle tendopoli. Io tutto questo non lo avevo messo in conto, ma vedo che il filo comune che lega le onde esperienziali e le tonalità emotive, per esempio anche dell’impegno nella comunità in cui vivo, tutto questo, appunto, è raccordato da un profondo amore, energia e passione, un provare ad esserci totalmente, perché è questo forse il solo momento che dipende interamente da me.

L’obiettivo è chiaro (e deve catalizzare tutte le nostre forze), il mezzo lo dobbiamo un po’  assecondare  là dove la vita ci presenta situazioni che  non avevamo messo in conto o che addirittura non gradiamo.

In questo cammino non dobbiamo lasciarci soppiantare dal senso di impotenza che ci coglie guardando quello che succede ogni giorno: è abbagliante il disimpegno morale nelle nostre comunità, la disaffezione, l’incapacità di prendersi veramente a cuore il mondo comune.

L’urgenza è data dalla improrogabilità di una presa di coscienza  rispetto alla drammaticità dell’attuale momento storico a livello globale. Buona parte dell’umanità vive in condizioni inumane anche a  causa del modello di sviluppo occidentale. L’economia basata sul PIL è un’economia violenta. E’ urgente andare verso la sobrietà, la decrescita e verso una economia solidale, rispettosa cioè di tutti i diritti umani e che contempli un equo accesso alle risorse e una ridistribuzione della ricchezza. E’ urgente  liberarsi dall’anatema: “Devi consumare per essere”, tipico di una società drogastica del sempre più sempre più, che non vede il valore del limite.

E’ necessario  leggere i segnali  incalzanti che ci vengono dalle insorgenze anche in questa parte del mondo: sommovimenti sociali, polarizzazione benessere/malessere socio economico, movimenti auto organizzati, anche di lotta non violenta e disobbedienza civile. In particolare, ogni insorgenza porta con sé una quota considerevole di energia sociale, cioè di informazione, che spinge il sistema a fare un salto di qualità, a rispondere in modo nuovo a problemi vecchi (che è l’essenza della creatività). Le comunità devono  sviluppare la capacità di holding[3] e di ricomposizione non violenta dei conflitti, la capacità di ascolto reciproco individuale, gruppale,  canalizzando la rabbia e l’indignazione in una direzione costruttiva, che aiuti a capire fino in fondo quali sono i problemi. In una parola,  le comunità devono sviluppare  una presenza consapevole e responsabile in questo mondo, e nel tempo che ci è dato. Tale presenza implica l’accoglimento delle diversità, ben consapevoli che i regimi (anche quelli che esportano democrazia con la forza) hanno paura delle diversità. I regimi hanno bisogno non di diverse abilità, ma di abilità schedate e prevedibili, e le medicine, le psicologie, le psichiatrie, le terapie spesso hanno convalidato queste  derive ontologiche, parlando di una fantomatica  normalità. In nome della normalità si  giustificano  crimini e camice di forza.

Accogliere le diversità è nutritivo: la radice è diversa dalla chioma eppure appartiene a un unico albero. Non dobbiamo avere  paura e forse neanche coraggio. Piuttosto, cerchiamo la bellezza:  James Hillman, filosofo e psicoterapeuta junghiano, fondatore del Dallas Institute of Humanities and Culture, affermava: ”Se i cittadini si rendessero conto della loro fame di bellezza, ci sarebbe ribellione per le strade.”[4]   Riconciliamoci con l’energia del cosmo, con quello che, in particolari momenti di grazia, possiamo sentire sulla nostra pelle come amore puro, battito divino. L’immy ruah. La nostra vita ora è qui, su questa terra, con le persone che incontriamo ogni giorno, e con quelle con cui condividiamo il cielo. Voglio credere che saremo capaci di ritrovarci per costruire veramente un mondo migliore, attingendo alla nostra comune umanità, e al legame indissolubile con  questo tempo, con questi luoghi, e con tutte le creature, animate e “inanimate”, con cui condividiamo la nostra terrietà. Più che formare, dunque, mi auguro che  si possa sformare, per aprire spazi di porosità, spazi di libertà, degni di accogliere l’anima del mondo.

Carmela Longo

Carmela Longo, Avere a cuore il mondo. Prendersi cura di sé, degli altri, del bene comune, Edizioni La Meridiana, Molfetta, 2013, pp. 96, euro 15,00.
http://www.lameridiana.it/SchedeDettaglio/DettaglioPubblicazione/tabid/61/Default.aspx?isbn=9788861533769

Per visionare alcune pagine:
http://issuu.com/meridiana/docs/avere_a_cuore_il_mondo?workerAddress=ec2-23-22-73-198.compute-1.amazonaws.com

[1]      Oggi Unità Operative per le Dipendenze Patologiche

[2]      Paoli A., La pazienza del nulla, Chiarelettere ed., Milano, 2012, pag.38.

[3]      Letteralmente sostegno: il termine è stato usato da Winnicott per indicare la capacità della madre di “tenere in braccio la situazione”, contenere il bambino nelle sue manifestazioni emotive, facendo in modo che non ne resti schiacciato, ma aiutando a canalizzarle.

[4]    Hillman J., Politica della bellezza, Moretti e Vitali ed., Bergamo, 2002, pag.13.

Una risposta a Avere a cuore il mondo. Il libro di Carmela Longo: dalla psicologia individuale al bene comune

  1. Pasquale Fetto 4 agosto 2013 a 20:30

    Carmela condivido totalmente la tua introduzione ma temo purtroppo che la maggioranza del popolo segue i potenti e abbandona gli ultimi salvo poche eccezioni che credo non diventeranno mai maggioranza

    Rispondi

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