La Cambogia del genocidio. “L’eliminazione”, romanzo di Rithy Panh

mappa-cambogia[di Tullia Bartolini] “L’eliminazione”, di Rithy Panh (Feltrinelli, gennaio 2014), è un gran libro.

L’ho letto d’un fiato e mi ha commossa. E’ bello, certo, come può esserlo un testo che parla della Cambogia negli anni tra il 1974 e il 1979, nel periodo della dittatura dei nove, degli eccidi comunisti e del genocidio cambogiano.

Lo stile è filmico, d’altronde Panh è un pluripremiato regista che da anni vive in Francia e che, all’epoca del regime, era poco più che un bambino.

“L’eliminazione” – scritto con la supervisione di Christophe Bataille -, è la storia della sua famiglia, della deportazione nella giungla a partire dal 17 aprile 1974, delle maglie tinte di nero e della nuova era voluta dalla Kampuchea di Pol Pot. Nasce l’uomo vecchio e si deve far sparire l’uomo nuovo che s’era affrancato dai campi di riso, che aveva studiato, s’era formato sui testi europei, si era laureato.

Il disegno è inizialmente confuso, poi diviene sempre più chiaro. Il seme marcio all’interno del popolo cambogiano va estirpato, nessuno sarà risparmiato: né vecchi, né donne, né bambini.

L’S21, che ripete il suo nome dalla radiofrequenza locale, è il luogo dove avvengono le torture, dove si confessano i reati contro l’ideale di purezza popolare, quello degli khmeri rossi scampati ai nascondigli e pronti a dettar legge.

L’S21 è una ex scuola, che viene prontamente recintata con del filo spinato ed affidata a un uomo spietato: Kang Kek Iew, detto Duch. Senza sapere perché, uomini, donne e bambini vengono caricati sui camion a occhi bendati, portati nell’edificio, fotografati. Esistono ancora delle tremende foto scattate da Nhem Ein che riprendono quei visi sgomenti, terrorizzati. Poi, sotto tortura, i prigionieri sono costretti a confessare crimini contro lo Stato mai commessi.

Il torturatore che dovesse uccidere il prigioniero prima di avergli estorto la dovuta confessione, rischia di essere ucciso a sua volta, dopo essere stato anche lui torturato, costretto a mangiare i propri escrementi.

A tutti viene promessa la libertà, una volta ammesse le proprie colpe. Di notte, sempre a occhi bendati, i traditori redenti vengono portati su una collina poco distante da Phnom Penh e fatti inginocchiare sul bordo di grosse fosse comuni. La piana è illuminata a giorno dai neon, perché la morte richiede massima precisione. Nel frastuono delle macchine che alimentano la corrente elettrica, senza comprendere cosa stia realmente accadendo, i prigionieri vengono colpiti violentemente da sbarre di ferro e sgozzati. Il lavoro è certosino, ogni cadavere viene controllato prima che la fossa sia chiusa.

Rithy Panh non è che un ragazzino. Suo padre è un insegnante stimato: è colto, legge e traduce dal francese, porta maglie bianche sotto le camicie, come fanno i cambogiani appartenenti a un certo ceto sociale. E’ dunque, un uomo nuovo. Non fa in tempo ad essere condotto alla tortura: morirà di fame. Con lui, tra violenze, malnutrizione e malattie, sparirà un terzo della popolazione cambogiana in soli quattro anni.

L’equazione è logica: dove non c’è modo di torturare, il popolo va affamato, ridotto a un’ombra, e non è un caso che i dispacci dalla Cambogia di Tiziano Terzani siano stati raccolti in un libro edito da Longanesi intitolato, appunto, “Fantasmi”.

Intanto, una sorella di Rithy, sposata a un medico, scompare. Sparisce anche il marito. Le cure mediche vengono affidate al popolo ‘vecchio’: analfabeti, contadini, ignoranti. Rithy fa anche da infermiere, più spesso seppellisce i cadaveri, testa-piedi, a mani nude, saltellando tra le fosse dietro l’ospedale. Ed è appena un ragazzino. E vede, vede: con occhi secchi osserva questo mondo disumano, che gronda sangue. Dove non è testimone, viene comunque a conoscenza di vivisezioni su uomini ancora in vita; prelievi di sangue fino alla morte dei malcapitati, stupri.

Vede pure la sua amatissima madre ammalarsi e sparire;  sua sorella più grande, la più intelligente di loro, esalare l’ultimo respiro su un tavolaccio di legno. I suoi nipotini morire d’inedia. Lui resiste: mentre la portavano via, sua madre gli ha gridato di tenere alta la testa, di non mollare mai.

Nella fuga del 17 aprile, la donna ha portato con sé lenzuola, dei cucchiai, un coltello, oggetti che poi si sono rivelati indispensabili per la sopravvivenza nella giungla. Ha anche costruito una capanna con dei divisori, dove si prende cura di tutti e dove vedrà morire gran parte della sua famiglia. Nel libro, la donna è ovunque, forse anche contro la volontà dell’autore: sembra di vederla china su Rithy bambino, una lieve carezza a scaldargli le guance, la voce prodiga di consigli che riaffiorano alla memoria del ragazzo nei momenti più duri.

Questo libro nasce dall’intervista filmata che Rithy Panh ha voluto fare a Duch, finalmente sotto processo dopo anni di fughe e camuffamenti (durante l’invasione vietnamita è riuscito a fuggire al confine con la Thailandia, ha imparato due lingue, ha insegnato, si è convertito alla cristianità, cambiato nome).

E’, naturalmente, il colloquio tra una vittima e il suo carnefice, “Duch non è un uomo in cammino”, scrive Panh, “perché mente – mente sempre – anche quando si mostra pentito e ammette che, certo, dall’S21, si entrava per non uscirne vivi”. L’imputato cerca un salvacondotto per l’al di qua, recita con voce mielosa la sua cantilena, cita versi biblici, omette. Non c’è risposta all’orrore, non c’è ragione alla disumanità, alla banalità del male.

L’ideale comunista, democratico e popolare, rimanda il suo fallimento dagli occhi disabitati di Duch, che cita Marx a memoria, e non piange. Vale a dire: il comunismo è l’ennesima favola convenzionale, buona per i salotti radical-chic di certi occidentali che ne parlano ancora sognanti.

Alla fine, scrive Panh, conta solo l’uomo.

“Nel 1975 avevo tredici anni ed ero felice. Mio padre era stato capo gabinetto di diversi ministri dell’Educazione.  Era in pensione, e senatore. Mia madre accudiva nove figli. I miei genitori, tutti e due di famiglie contadine, credevano nella cultura. Meglio: avevano la passione della cultura (…). Allora lo ignoravo, ma eravamo destinati a diventare, all’arrivo dei khmer rossi nella capitale, parte del ‘popolo nuovo’ - che significa: borghesi, proprietari, intellettuali.  Dunque degli oppressori: da rieducare nella campagne, o sterminare (…). Dare all’odiata classe un nome pieno di speranza: popolo nuovo. Che idea geniale. Questa massa verrà trasformata dalla rivoluzione. Tramutata. La si cancella per sempre. Quanto al popolo vecchio, o popolo di base, non è più arcaico e sofferente: diventa il modello da seguire (…). Il popolo vecchio è l’erede del grande regno del grande regno dei khmer. Non ha età. Ha costruito Angkor (…). Ha il compito di rieducarci e ha un potere assoluto su di noi”.

(Pag. 26 del libro).

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