La necessità di una rivoluzione culturale che ha radici nella fisicità del cibo.

Intervento per l'incontro "Il nuovo benessere: prendersi cura di sé e del mondo in modo sicuro e sostenibile", 12.11.15, c/o Vaso di Pandora, Morcone, Settimana del benessere psicologico in Campania.

cibo[di Alessio Masone] Il cibo, quando capace di funzione culturale, quindi capace di cambiamento, di giustizia, può essere:
- ETICO, capace di economia inclusiva degli svantaggiati (disabili, detenuti, commercio equo…);
- LOCALE, capace di economia inclusiva del vicino di casa (negoziante di quartiere) e di territorio (produttore locale);
- BIOLOGICO, capace di economia inclusiva della salute dell’individuo e del pianeta. 
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Tutti questi tre casi di cibo culturale, per realizzarsi, necessitano di un faticoso approccio esperienziale del consumatore, quindi sono connotati da una cittadinanza non delegata… alle multinazionali e allo Stato. 
Probabilmente, il grado di benessere di una comunità territoriale è strettamente connesso al grado di esperienzialità agito dagli individui nel quotidiano: ogni azione non delegata infatti innesca attitudini inclusive dell’altro, quindi, generando felicità diffusa. 
Se non sappiamo includere l’altro durante il gesto quotidiano alimentare, suonerà retorica ogni declamata inclusione del diverso da noi.
Infatti, ogni gesto esperienziale verso il cibo abbatte la barriera tra produttore e consumatore, tra attore e spettatore: 
- il consumatore, includendo il produttore/negoziante locale, diventa coproduttore del cibo consumato e conegoziante del prodotto acquistato;
- il produttore/negoziante non agisce più dall’alto del palcoscenico di attore, ma include le competenze dello spettatore/consumatore. 
La dignità dei mestieri manuali (quindi quelli più esperienziali) sta vivendo una rinascita perché i mestieri fisici, quelli inclusivi delle competenze corporee dell’individuo (il corpo questo dimenticato), sono capaci di felicità, a differenza delle nuove e spersonalizzanti, professioni immateriali. Se davvero vogliamo un cambiamento, dovremmo mettere in discussione il rapporto con le professioni intellettuali. Un giorno, dovremo arrivare a retribuire maggiormente le professioni immateriali, non perché più complesse dei mestieri manuali, ma solo perché più infelici, più usuranti per la psiche.  
Il nazismo di oggi è rappresentato dalle multinazionali: avevano già svuotato di esperienzialità le popolazioni, rendendole infelici, ora, stanno anche svuotando di economia i territori.
Il rapporto con il mondo del cibo e con gli altri mestieri manuali è il luogo dove si giocherà il futuro per l’autodeterminazione dei popoli e degli individui: ogni mestiere fisico, tendenzialmente per sua natura, produce coesione territoriale e tutela l’economia locale. Grazie a una nuova “resistenza”, i nuovi intellettuali agiscono nel recupero dei mestieri manuali e territoriali: noi li chiamiamo “p’artigiani”.
Ma il recupero dell’esperienzialità che stiamo apprendendo dalla cultura materiale, possiamo applicarlo anche al mondo culturale e artistico, quindi a ogni processo cognitivo.
Stiamo imparando dalla ruralità che non esiste, un’eccellenza assoluta, un cibo che eccelle sugli altri, ma numerosi cibi che, rapportandosi con il territorio, realizzano un’opportunità di identità, di relazionalità corta, di condivisione, di giustizia sociale, di redistribuzione del reddito, di tutela ambientale. Quindi, è opportuno perseguire, non un’eccellenza assoluta, ma un’eccellenza relazionale.
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Allo stesso modo, l’eccellenza artistica non può più risiedere nell’opera calata dall’alto, già confezionata, uguale per tutti e capace di omologazione: il momento creativo dovrà, da oggi, risiedere soprattutto nella porzione di competenza del fruitore che, agendo in prima persona, con approccio esperienziale, diventa coautore dell’opera e del mondo. 
L’indipendenza/esperienzialità nello scegliere per sé un film, un libro, un’opera d’arte, senza delegare ai mass media, ai premi e alle mode culturali, rappresenta nel fruitore la fatica di essere coautore dell’opera. La grande industria culturale ci tratta come fossimo tutti uguali, suggerendoci orientamenti omologanti: invece, ognuno di noi è portatore di una propria specificità da dare al mondo e, per tutelarla, i nostri orientamenti devono restare indipendenti. 
L’indipendenza/esperienzialità nel fruire di un film o nell’acquistare un libro, senza delegare ai cinema multisala, alla grande distribuzione e alla vendite online, rappresenta nel consumatore culturale la fatica di essere coautore dell’opera: che senso ha vedere un film contro l’ingiustizia, se la fruizione avviene in un multisala che cementifica le campagne periurbane e che porta via i redditi dai territori? Se non vogliamo essere complici dell’ingiustizia denunciata nel film, il non fruire (nel multisala) di quel film è un atto culturale svolto in prima persona, un gesto artistico non delegato che ha concrete ricadute nel reale. Ogni “lettore indipendente”, dalle multinazionali, dalle librerie di catena e dalle vendite online, è coautore dell’opera che legge.
Non conta la migliore verità od opera: conta quello che ognuno di noi ne fa di una verità o di un’opera, riportandola, in prima persona, nel mondo.

 

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